Rabbi El’azàr figlio di ‘Azaryà disse: «Benché io sia come un settantenne, non ho meritato che l’uscita dall’Egitto venisse raccontata nelle notti...» (Haggadà).
Con questa espressione rabbi El’azàr esprime il suo stupore per non essere riuscito mai a trovare una fonte nelle Scritture che provasse l’obbligo di raccontare l’uscita dall’Egitto anche di notte. Secondo lui, questo era un precetto della Torà ma non poteva dimostrarlo concretamente e quindi questa sua halachà non fu accettata finché Ben Zomà non risolse il problema (cf Haggadà).
A proposito dell’uso della parola come (un settantenne), il Talmùd spiega che in realtà rabbi El’azàr era molto giovane (aveva solo diciotto anni), ma Hashèm fece diventare bianche diciotto ciocche della sua barba e per questo motivo diventò come un settantenne.
Il Rebbe di Lubàvitch chiede allora per quale motivo rabbi El’azàr si meravigli tanto del proprio insuccesso, se comunque la sua anzianità era soltanto apparente. Sapeva di essere molto giovane: perché allora pretendeva di essere allo stesso livello intellettuale di uomini molto più anziani e di scoprire i segreti della Torà alla sua giovane età?
In realtà l’aspetto esteriore di rabbi El’azàr, simile a quello di un settantenne, dimostra che spiritualmente egli aveva raggiunto un livello molto alto e che quindi il candore della sua barba non era casuale: era il segnale evidente della sua saggezza e della sua sapienza, che gli permetteva di suscitare il dovuto rispetto e ammirazione da parte degli altri rabbini, tutti più anziani di lui. Lui stesso era conscio della propria saggezza e per questo motivo si stupiva dell’insuccesso delle sue ricerche.
Arì Zal (grande cabalista di Safèd del XVII secolo) aggiunge inoltre che rabbi El’azàr aveva veramente settant’anni, se si tiene conto dell’età che aveva raggiunto nella vita spirituale precedente (ghilgùl). L’anima di rabbi El’azàr apparteneva infatti a un’altra persona, e poi trasmigrarò nel suo corpo. Assieme agli anni della prima persona, i suoi diciotto diventavano settanta...
Da questo fatto possiamo trarre un insegnamento fondamentale da applicare nella nostra vita di tutti i giorni. Quando ci troviamo di fronte a una situazione difficile, quando non riusciamo a eseguire la volontà di Hashèm perché crediamo di non avere forza materiale e spirituale a sufficienza, pensiamo a ciò che ci insegna Arì Zal a proposito di rabbi El’azàr: egli aveva accumulato così tante forze positive durante gli anni della vita precedente che era riuscito a raggiungere un altissimo livello spirituale. Analogamente, le anime della nostra generazione non sono anime nuove: la maggior parte di lorosono ghilgulìm, anime “ritornate”, e quindi hanno tutte accumulato, nel corso delle vite precedenti, numerosi meriti e forze spirituali. Per questo ogni persona può, se vuole, fare ciò che le viene richiesto da Hashèm, poiché Egli non esige dall’uomo niente di impossibile.
A questo punto potrebbe nascere il timore che, come per il bene, l’anima della persona avrebbe sempre con sé anche il fardello dei suoi peccati e dei suoi errori di cui non riuscirebbe più a liberarsi. In realtà, questo timore è del tutto infondato: il bene è un’essenza spirituale, il male, invece, non è altro che un fitto velo che cela la santità e nasconde la luce divina, ma di per sé non ha un’essenza. Per tale motivo, le mitzvòt che la persona compie durante la vita sono eterne mentre se ha fatto teshuvà, o se ha subito la punizione per i suoi peccati, il male viene completamente annullato. Quindi, proprio noi, che viviamo in questa generazione, avremo il merito di assistere alla redenzione: abbiamo accumulato, nel corso dell’esistenza delle nostre anime, moltissimi meriti grazie ai quali vedremo Mashìach con i nostri stessi occhi, amèn.
Tratto da un discorso del Rebbe di Lubavitch.
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