‘Amalèk: Chi sei e Che Cosa Vuoi?
Questo Shabbàt si legge il brano di Zachòr, tratto dal libro di Devarìm, in cui Hashèm ci ingiunge a ricordare ciò che il popolo di ‘Amalèk ci fece nel deserto e a cancellarne la memoria.
La lettura del brano è seguita da quella della haftarà tratta dal libro di Melakhìm (Re).
Seguono alcuni approfondimenti classici e khassidici a riguardo.
L’attacco di ‘Amalèk nel Deserto
‘Amalèk era una tribù che prese nome dal suo patriarca figlio di Elifàz, a sua volta figlio di ‘Essàv e della concubina di Elifàz, Timnà, sorella di Lotàn, uno dei figli di Se’ìr il khorita (cf Bereshìt 20, 22 e 36, 12). Il popolo di ‘Amalèk risiedeva nella regione fra Petra e Gobolitis a nord del Sinày, nel Nèghev (Rav Kaplan e Ibn ‘Ezrà). Cf Bemidbàr 24, 20.
Alla fine della parashà di Beshallàch la Torà descrive l’aggressione subita dagli ebrei da parte di questo malvagio popolo.
In quanto discendenti di ‘Essàv, gli amaleciti vivevano ai confini della terra che era stata promessa ai figli di Ya’akòv; sapevano di non aver alcun motivo valido per attaccarli, poiché gli ebrei non rappresentavano una minaccia all’integrità del loro territorio; inoltre, prima d’allora non si erano mai verificati scontri fra i due popoli. La meschina aggressione di ‘Amalèk aveva però due motivi: manifestare la propria negazione di Hashèm e del Suo potere e garantire la continuità dell’antico odio di ‘Essàv per Ya’akòv (Màlbim).
L’odio di ‘Amalèk nei confronti di Israèl non era però soltanto l’eredità dell’antenato ‘Essàv, ma di ciò di cui il suo popolo è simbolo. Il malvagio profeta Bil’àm definì ‘Amalèk come il primo tra i popoli (Bemidbàr 24, 20), poiché esso è la “forza motrice” del male, così come Israèl lo è del bene. Di conseguenza, la guerra tra questi due popoli è simbolo dell’eterna battaglia tra queste due forze.
Un Duplice Freddo
Nel libro di Devarìm (25, 17-18), Hashèm si esprime in questi termini riguardo al dovere di cancellare la memoria di ‘Amalèk: Ricorda ciò che ti fece ‘Amalèk... quando uscisti dall’Egitto... incontrandoti sulla via...
Il termine corrispondente a incontrandoti in ebraico è קרך-karkhà, che si riconduce, omileticamente, anche al termine קר-freddo. L’atto malefico commesso da ‘Amalèk consisteva quindi non solo nell’aggressione del popolo ebraico, ma anche in un certo raffreddamento.
Come insegna il Midràsh, questo popolo fu colui che, per primo, ebbe il coraggio di affrontare gli ebrei dopo la loro trionfante uscita dall’Egitto. Tutte le nazioni circostanti li temevano e non avrebbero mai osato attaccare, offendere o anche solo manifestare disprezzo nei loro confronti, se non fosse stato per ‘Amalèk. Fu lui a raffreddare il timore dei popoli. Riprendendo la metafora del Midràsh, ‘Amalèk entrò nella vasca d’acqua bollente e, rivolgendosi alle altre nazioni, disse: «Non è poi tanto calda, niente di terribile!». E così anch’esse vi saltarono dentro, con timore molto minore, certe che se qualcun altro l’aveva fatto prima di loro, anch’esse avrebbero potuto.
Questo, a livello omiletico.
La khassidùt si inoltra interiormente nel significato simbolico di questo popolo e del suo malvagio operato, proiettandolo sull’ebreo di tutti i tempi, anche quello moderno.
Riguardo alla minaccia rappresentata dall’inseguimento del faraone e dalle sue agguerritissime truppe, Hashèm disse che Egli stesso avrebbe combattuto per gli ebrei e questi ultimi avrebbero dovuto tacere, senza agire (Esodo 14, 14).
Contro l’aggressione di ‘Amalèk era necessario invece reagire con la forza: i figli di Israèl dovettero intervenire con una difensiva militare concreta ed efficace.
Il motivo della distinzione va ricercato nel genere di guerra che questi due nemici condussero contro Israèl: gli egizi rappresentavano un pericolo materiale in quanto volevano eliminare gli ebrei fisicamente, senza intaccare, perlomeno non direttamente, la loro fede. ‘Amalèk, invece, rappresentava un pericolo spirituale poiché comparve proprio quando gli ebrei erano diretti al monte Sinày, dove stavano per ricevere la Torà. Aggredendoli, ‘Amalèk intendeva indebolire gli ebrei moralmente molto più che fisicamente.
Questo riguarda l’Amalèk del nostro passato e della nostra storia, di quella storia che in qualche modo si ripete ciclicamente e che se non fosse così turbolenta, quasi ci annoierebbe tanto ci ha abituati a nemici di ogni genere, veste, credo e colore.
Tuttavia, se la Torà ci richiede con tale enfasi di combattere questo nemico, di cancellarlo e di eliminarlo, significa che la sua minaccia ha una portata ancora maggiore di quella a livello nazionale e storica.
‘Amalèk rappresenta infatti un pericolo non solo per il macro ma anche per il micro, che non sempre ne è consapevole.
All’interno di ciascuno noi, nel nostro cuore, nella nostra mente e nella nostra anima, si nasconde infatti un ‘Amalèk più o meno grande, forte o meschino, sotto spoglie diverse a seconda dell’alloggio che gli offriamo, a seconda cioè delle nostre condizioni personali, del nostro umore e del nostro stato morale e spirituale.
‘Amalèk è la forza interiore che raffredda, una sorta di vento spirituale che, per quanto innocuo in apparenza, può essere molto pericoloso e impiantarsi alla radice di molti guai.
Egli rappresenta quella forza che fa nascere dei dubbi nel nostro cuore e nella nostra mente, raffreddando l’entusiasmo che scaturisce dai miracoli degli “esodi” personali; egli spegne lentamente la nostra sensibilità verso la provvidenza e l’amore con cui Hashèm guida e anima la nostra vita.
‘Amalèk ci rende insensibili ai miracoli di cui siamo quotidianamente oggetto, ci rende indifferenti a ciò che studiamo e impariamo e a ciò a cui assistiamo. “Non correre”, “Non ti esaltare” “Vacci piano!”, questo è quello che ci dice, giorno dopo giorno. Un lavaggio di cervello lento e progressivo che, se sottovalutato, può essere anche più pericoloso di un uragano.
E possiamo essere certi che questo ‘Amalèk sa esattamente che cosa dire, a chi e in quale momento.
Riportandoci alla haftarà della lettura di Zachòr, è interessante notare come questa duplice identità di ‘Amalèk si manifesti nella vicenda stessa di re Shaùl.
A livello nazionale e interpretando letteralmente i versetti, ‘Amalèk è semplicemente il nemico che il popolo ebraico deve eliminare. Non è un nemico che si può rendere amico, con lui non si può trattare, patteggiare o tentennare. Egli ci vuole cancellare e noi dobbiamo esserne consapevoli e anticipare le sue mosse.
Tuttavia, esaminando la condotta di re Shaùl, si scopre che in lui si nasconde anche un ‘Amalèk spirituale, sotto spoglie diverse da quelle illustare sopra, ma non meno meschine.
Il profeta Shemuèl ingiunge Shaùl a distruggere l’intero popolo e a cancellarlo: uomini, donne e bambini, ma anche animali e bestiame.
Hashèm, evidentemente, sapeva quel che andava fatto per il bene di Israèl.
Invece Shaùl volle fare l’eroe, volle fare meglio. Così risparmiò il bestiame buono e pasciuto insieme ad Agàg, re di ‘Amalèk.
Con il bestiame intendeva offrire sacrifici ad Hashèm. Perché sprecare della materia così buona quando la si può impiegare per servire D-o?
Quanto a re Agàg, egli ne riconobbe il potere, il carisma e la forza e si disse: “Indichiamogli la retta via, rieduchiamolo e facciamo di lui uno tzaddìk!”.
In teoria, i suoi argomenti non erano privi di fondamento. La Torà ci insegna infatti che bisogna dedicare ad Hashèm ciò che si possiede di meglio. Il miglior bestiame per i sacrifici, le forze del mattino allo studio della Torà, il cibo migliore per Shabbàt e così via.
L’idea di convertire Agàg a una condotta migliore affondava le radici in un pensiero analogo. “È una persona così forte, peccato sprecarne i potenziali!”, si disse Shaùl. In fondo, anche il buon vecchio Yitrò aveva davvero toccato il fondo prima di abbracciare la fede ebraica. E una volta abbracciata, essa lo riabbracciò tanto fortemente da dedicargli il nome di un’intera parashà – e che parashà: quella dei Dieci Comandamenti!
Perché non fare lo stesso di Agàg?
Quale fu quindi il fallo commesso da Shaùl, tanto grave da fargli perdere il trono e da farci rischiare la nostra stessa esistenza a causa di Hamàn, il diretto discendente da Agàg?
Shaùl fece ricorso alla ragione quando avrebbe dovuto accantonarla. Il suo pensiero, per quanto fondato in apparenza, semplicemente si scontrava con la volontà di Hashèm, da Lui espressa in maniera tanto esplicita. Shaùl mise in gioco la logica quando invece gli era richiesta pura e semplice sottomissione a Colui che ha creato il mondo e che conosce bene creato e creature.
Talvolta, quindi, la ragione può essere la peggior nemica dell’uomo. Può gettarlo nel buio più profondo quando ciò che gli viene richiesto è semplicemente di guardare in alto, verso la luce.
Non si fraintenda: Shaùl era un grande tzaddìk e la sua colpa gli fu considerata grave perché Hashèm è meticoloso con gli tazddikìm [misurandone le colpe] quali fossero fini come capelli.
Se avessimo fatto noi quello che fece Shaùl, saremmo passati abbastanza inosservati.
La lezione di questa vicenda tuttavia va ben compresa, assimilata e messa in pratica. La ragione può portare l’uomo alle vette più alte solo quando è impiegata per conoscere Hashèm ed approfondire lo studio della Torà. Non a caso la chassidùt Chabàd prende il nome dall’acronimo chochmà-binà-dà’at (saggezza, intelligenza e conoscenza). Lo sviluppo di queste tre forme intellettuali di cui siamo dotati è ciò che ci può portare ad avvicinarci ad Hashèm sempre di più, a condizione che sia indirizzato nel giusto senso.
Il più delle volte però la nostra mente rischia di ostacolare i nostri progressi. E di raffreddarci.
Come combattere, quindi, tutte queste forme di ‘Amalèk? Semplicemente con il calore spirituale che scaturisce dalla Torà e che deve animare continuamente l’osservanza delle mitzvòt.
Calore ed entusiasmo sono infatti ciò che consente all’uomo di esistere e di progredire, ciò che gli consente di vivere pienamente la sua esistenza.
(Basato sui discorsi del Rebbe di Lubavitch).
Di Avigail H. Dadon, pubblicato in occasione del “Raduno delle Italiane in Israele” (adar 2009), grazie al gentile contributo di Rav Menachem Hadad, Rabbino Capo di Bruxelles.
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