Due montagne segnano in modo significativo la storia ebraica: il Monte Sinai, sul quale ricevemmo la Legge e il monte Morià, noto anche come il Monte del Tempio, simbolo del servizio divino dell’uomo. L’uno è nel deserto, il secondo al centro della capitale d’Israele, a Gerusalemme. I saggi spiegano che la Torà è stata data nel deserto per insegnare che essa è accessibile a tutti, senza distinzioni sociali, allorché il mondo “civilizzato” è composto da gerarchie dello spazio (luoghi pubblici, luoghi privati, società, scuole, club, ecc., ecc.). Col deserto, una landa estesa e sconfinata, si impara il concetto della messirùt néfesh, il sacrificio di sé, che implica un’attività non circoscritta da limiti che ostacolano le nostre capacità e nonché una frenetica ostinazione volta a raggiungere gli scopi prefissati senza rischiare di essere frenati da resistenze esterne o interiori.
Fare di se stessi un deserto
Il Midràsh stabilisce: “Colui che non fa di sé stesso un deserto non è in grado di acquisire la Torà”. Riguardo ai dettagli delle Leggi, rabbi Yishmaèl dichiara che furono impartiti a Moshe nel Mishkàn, il santuario portatile costruito nel deserto. Rabbi Akivà, di contro, ritiene che “I principi generali quanto i dettagli furono insegnati al Sinai”. Il Mishkàn era il precursore del Tempio. Il nucleo del campo era il santuario, emblema di civiltà in mezzo al deserto, un luogo strutturato e suddiviso in zone.
Per rabbi Yishmaèl, la messiràt nèfesh costituisce la qualità generale elementare della Torà, destinata a generare uno studio metodico e progressivo dei minimi particolari delle leggi, ovvero un procedere per gradi marcato da autocontrollo. Pertanto, la messiràt nèfesh funge da molla e da sfondo, ma lo studio deve’essere regolato in base alle norme che si applicano per ogni opera sacra. Rabbi Akivà asserisce che l’universalità della Torà deve invadere tutto il nostro essere e che la nostra dedizione allo suo apprendimento dev’essere assoluta e incondizionata. Insomma, per rabbi Akivà, la Torà è tutta deserto, un terreno aperto ad un dono di sé infinito.
Due vite, due approcci
Questi due approcci sono il prodotto della vita dei due personaggi. Rabbi Yishmaèl nacque in una famiglia di maestri, era erudito da lungo tempo nonché Sommo Sacerdote. Rabbbi Akivà era un Baal Teshuvà (una persona che ritorna al Sig-re in età adulta), in passato un pastore ignorante e analfabeta. Essi sono rispettivamente l’esempio dello tzaddìk, il Giusto perfetto, che aderisce fedelmente ad un programma elaboratissimo al fine di sviluppare il bene in sé e nel mondo e del Baal Teshuvà che si estirpa dagli abissi dell’iniquità e si innalza alle sommità della completa realizzazione. La vita dello tzaddìk nato è regolata e stabile, egli percorre tutte le tappe dell’applicazione mentale per assurgere ad una conoscenza perfetta e ad un’unione con D-o, interiorizzando la sua messiràt nèfesh. La vita del Baal Teshuvà è anarchica e composta da cadute brutali e da ascese meteoriche, egli agita la sua Messiràt Nèfesh per condurre la sua esistenza esplosiva e passionale. Come in tutte le divergenze d’opinioni riguardo ai Testi, anche qui vale il famoso principio: “Questa e quella sono parole del D-o vivente”. I due approcci non si contrappongono, anzi, sono complementari e vanno congiunti unendo la perfezione rigorosa di rabbi Yishmaèl alla forza dirompente e emotiva di rabbi Akivà.
(Likutè Sichòt)
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