Quando ero bambino, l'inverno e la stagione delle festività vedevano sempre la nostra famiglia in salotto tranquillamente riunita di fronte alla Menorà di Chanukkà, il nostro candelabro ebraica ad otto braccia. Ogni anno accendevamo candele speciali per otto giorni, una candela la prima notte, due la seconda e via dicendo finché all'ottava notte l'intera menorà era accesa. Pronunciavamo l'apposita berahà ogni notte per ricordare la storia miracolosa dei Maccabei, i combattitori ebrei della libertà del secondo secolo prima dell'era vulgare.

Al Talmud Torah della domenica avevamo appreso della battaglia condotta da questo piccolo gruppo, contro dittatori stranieri che cercarono di bandire molte delle pratiche centrali della tradizione ebraica. Nonostante gravissimi ostacoli, i Maccabei succedettero nello scacciare i loro oppressori, ricatturarono e ridedicarono il Tempio di Gerusalemme (la parola stessa Chanukkà significa «dedicazione»). La parte più eccitante per noi bambini giunse quando leggemmo come, durante la battaglia per il Tempio, quasi tutto l'olio necessario all'accensione della menorà era contaminato. La minuscola dose rimasta sarebbe bastata solo per un giorno.

Ma miracolosamente, durò otto giorni, esattamente il tempo sufficiente ad ottenere un altra provvista. Così imparammo che, accendere la Menorà di Chanukkà è un richiamo ed una celebrazione della giustizia che può superare la forza e di una piccola luce che può disperdere grandi tenebre. Ed eccoci nel salotto della mia famiglia, mentre mia mamma diceva la benedizione con le mani di papà poggiate sulle sue spalle. Mio fratello ed io accendevamo a turno le candele, sorridevamo, ci abbracciavamo, qualche volta ci scambiavamo i regali. Una stanza ed una famiglia piena di luce e calore. Questo era per me Chanukkà.

Tutto ciò avveniva molti anni prima. Durante questo periodo l'anno precedente, erano già trascorsi quindici anni da quando mi trovavo davanti alla Menorà di casa. Ora avvocato, assistente sociale e consulente, mi ero visibilmente allontanato da ogni connessione alla tradizione ebraica, quantunque moderna. Non avevo acceso una Menorà di Chanukkà per anni e nemmeno mai pensato di farlo. E la storia di Chanukkà da molto tempo non era stata che un altro mito scartato dell'infanzia. Ciò nonostante, per qualche ragione avevo cominciato ai primi dell'anno a sentire il bisogno di esplorare ancora una volta le mie « radici » ebraiche. Forse fu così che un anno fa mi trovai a passeggiare per Stockton Street una fredda notte di Dicembre. Mia moglie, mia figlia di tre anni ed io ci recavamo ad accendere una Menorà. Non la solita Menorà però, ...questa era alta 9 metri, e si innalzava nell'Union Square.

Sono circa le quattro mentre ci inoltriamo da Stockton Street, verso la piazza ed è già il tramonto in questa breve giornata invernale.

La mia prima impressione è che non si immaginerebbe mai che qualcuno stesse per accendere qui una Menorà. La piazza è vuota e fredda, foglie volanti sui marciapiedi, clienti ormai andati via, le panchine occupate della gente della strada ed i derelitti che le reclamano come aree inviolabili di proprio domicilio, quasi sento che ci stiamo intrufolando nel loro territorio privato mentre saliamo i gradini. So che siamo in anticipo; la mia immaginazione è in qualche modo inceppata nella fantasia di una piazza impaccata di fronte ad una gigante e fiammante Menorà. La scena che ho di fronte è invece deludente.

Poi vedo un turbine di movimento giù alla fine di Powell Street, sulla piazza. «Ecco la Menorà», indico a Sara, nostra figlia. All'inizio con la luce crepuscolare di Stockton Street è un po' difficile distinguerla contro lo sfondo del St. Francis. Ma poi mentre ci avviciniamo, aumenta sempre più di grandezza in prospettiva finché ci troviamo di fronte, guardando questo semplice ed elegante forma. Alta nove metri, di legno levigato, bello e disadorno, dopotutto abbastanza proporzionata alla piazza.

È qua giù vicino alla Menorà dove si avverte il fermento in preparazione dell'evento. Parcheggiato nell'angolo della piazza c'è un camper che riporta una scritta pitturata Mitzvà Mobile e Casa Chabad, ai lati. Casa Chabad è dietro questa Menorà in Union Square. Sono una sorte di combinazione sinagoga/centro studi ebraici comunità in Berkely, guidate da ebrei ortodossi della tradizione chassidica, per i quali cantare, danzare, raccontare storie e lavorare su se stessi spiritualmente va man in mano con lo studio e l'osservanza delle vie tradizionali. Ancor più importante, questi) Lubavitchers (così chiamati secondo la città della Russia dove vivevano i leaders spirituali o Rebbes) credono nel raggiungimento e nella condivisione delle loro celebrazioni della vita ebraica con tutti gli Ebrei, da quello molto religioso a quello non religioso affatto. Di conseguenza, essi sono qui con questa Menorà, in Union Square. E di conseguenza, sono un ospite ben accolto, io che non ho visto, meno che mai accesa, una Menorà per una decade.

Infatti, non appena ci avviciniamo mi trovo circondato da un abbraccio forte e caloroso di un uomo giovane ed alto dal cappello nero, cappotto lungo, barba rossa. Shalom Aleihem! egli dice mentre mi stringe e mi pianta un bacio sulla guancia. Salute fratello! Questi è Yosef Langer, uno degli organizzatori di questo evento. Chiunque pensi che una tradizionale persona religiosa deve essere contratta ed inavvicinabile, che trascorra allora mezz'ora con Yosef o con Rabbini Ferris o Raichik della Casa Chabad. Comunque non appena Yosef mi mette giù e mi dà una spolveratina sulla giacca, viene subito alzato in una nuvola di polvere, su una speciale gru, e scale in cima alla Menorà per accertare che le candele siano pronte per l'accensione.

Mancano ancora quarantacinque minuti al momento dell'accensione, così ci sediamo ed aspettiamo. Non certo Sara, che corre, salta e fa di tutto una scalata. Vuole specialmente seguire Yosef su nella gru.

Mentre ci sediamo per un momento, mi guardo intorno e dico a me stesso, dopotutto, quella che si sta svolgendo qui è una strana cosa. Alla fine, qui all'estremità di questa piazza cosa c'è? Qualche dozzina di persone con la Mitzvà Mobile e la Menorà, molte attività e un correre avanti indietro. Tecnici che preparano microfoni ed amplificatori sul palco sotto la Menorà. Gente che assortisce letteratura da distribuire. Richieste ed ordini gridati di continuo come persone che si preparano per un concerto o uno spettacolo. Ma nonostante questo piccolo cerchio di attività, la piazza appartiene sempre alla gente della strada e della notte; è pur sempre il loro posto, e sono sempre loro a definire l'atmosfera, ma non qua vicino al palco.

Se la piazza fosse stata un quadro adesso, il critico parlerebbe di una « giustapposizione di opposti » o qualcosa del genere.

Comincio a meravigliarmi. Cosa facciamo qui comunque?

Tali celebrazioni non sono piuttosto un affare privato? Durante la mia infanzia, nel calore della mia casa, ognuno si riuniva in salone. Ma nel mezzo di Union Square? Non c'è da meravigliarsi che qui disturbi. Forse per parafrasare la canzone, è una deliziosa Menorà, ma è il tempo sbagliato, il posto sbagliato. Forse. I miei pensieri librano, e rinuncio a capire. II fatto è che siamo qui intanto la piazza comincia ad affollarsi di gente. Quando sollevo lo sguardo ci sono molte più persone di quelle che ho notato pochi minuti prima. L'inizio di una folla, ed anche una folla abbastanza interessante. Da qua su, vedo due anziane coppie, turisti o forse « shoppers », rivestiti in cappotti con colli di pelliccia, con borse Liberty House. Laggiù, una giovane famiglia, uomo e donna con jeans e giacche rattoppati ed un bambino nel « porte-enfant », dietro la schiena. Riconosco un giovane uomo di Berkely, una specie di ebreo - hippie del luogo, che indossa un largo cappello di pelle, giacca e pantalone a frange, ed occhiali alati alla Telegraph Avenue Proprio a case in Union Square. Mi alzo e passeggio con Sara, ascolto accento della Costa Orientale e del Sud, ebraico e Yiddish qua e là. Anche francese ed altre lingue che non riesco ad identificare. Ora noto un po' più di gente nella tradizionale veste ortodossa — cappelli neri e cappotti scuri, barba lunga, e donne con foulards legati dietro ai capelli. Molti bambini, da neonati in su. Sicuramente qui ci sono quattro generazioni stanotte.

Il piccolo cerchio di quarantacinque minuti fa è cresciuto fino a riempire più della metà della piazza. Non avverto solo gente, ma anche suoni, rumore, energia. Si parla con gli amici o anche i vicini mai incontrati prima che ora sono nuovi amici. La coppia dietro di noi proviene da Chicago ed è in visita della loro figlia. Trovandosi fuori per una passeggiata prima della cena in hotel rimangono deliziati nel trovare la Menorà. Infatti, la folla si sta divertendo a tal punto adesso, solo chiacchierando — « schmussing » come si dice in Yiddish—che ci vogliono cinque minuti buoni prima che l'animatore sul palco catturi l'attenzione per poter dare inizio al programma.

L'uomo al microfono—cappello nero, cappotto nero, barba nera, gran sorriso—è Rabbi Chaim Drizin, il direttore della Casa Chabad.

Ora, quando la folla finalmente si calma, egli parla, ingiungendo una piccola introduzione circa la Casa Chabad e Chanukkà stessa. Ci informa anche che il benefattore principale della celebrazione serale non è altri che Bill Graham, l'imperatore della rock music di San Francisco, che ha aiutato a finanziare l'intero evento ed infatti ha costruito la Menorà in proprio. Poi, dopo le introduzioni, Rabbi Drizin si lancia nell'elemento essenziale di ogni riunione hassidica-ebraica — la storia che insegna una lezione.

Capita, egli dice, che la storia non riguardi direttamente Chanukkà, ma la racconterà lo stesso. La folla si accomoda ai posti pronta ad ascoltare.

Un povero ebreo viveva nei dintorni di una grande città nel vecchio paese. In quella città viveva un uomo ricco che, tutti dicevano, apriva la sua porta a tutti coloro che avevano bisogno, dando loro un pasto alla sue tavola, ed inoltre qualunque regale scegliessero. II nome dell'uomo ricco? Rothschild. Finalmente, dopo un anno particolarmente duro, il pover uomo mise da parse il suo orgoglio e decise di visitare questo Rothschild. Si recò nella città e bussò alla porta. Rothschild stesso l'aprì dicendo: « Benvenuto amico, arrivi giusto in tempo per un pasto ».

Entrarono, lavarono le mani e sedettero ad una tavola favolosamente apparecchiata. Poi Rothschild sollevò una piccola campana di vetro e diede un piccolo tintinnio. Immediatamente come per magia, una porta si aprì ed i servitori scivolarono dentro con antipasti, insalata e via dicendo.

Poi, la campana fu di nuovo suonata, ed apparvero i servi con la zuppa.

Dopo la zuppa, un altro tintinnio ed eccoli con il pesce. E così per tutto il pasto. Al termine durante il caffè, Rothschild ricordò al povero ebreo che era benvenuto non solo per il pasto ma anche chiamato a scegliere qualunque cosa desiderasse. Senza esitazione, il pover uomo disse «non so se qualcuno ve l'ha già chiesta, ma ciò che voglio è quella piccola campana che voi suonate durante il pasto». Nonostante un po’ perplesso Rothschild gliela diede, e l'uomo ringraziò vivamente, si alzò e corse via.

Il povero ebreo corse a case e non appena vi entrò irrompendo dentro chiese a sua moglie di preparare la tovaglia e le posate più belle, chiamare i bambini ed invitare tutti i loro amici. Lei lo fece protestando, sapendo di non avere niente nella dispense. Mentre tutti erano seduti e meravigliati di cosa stesse succedendo, il pover uomo tirò fuori con cure della tasca la campana che Rothschild gli aveva donato. La sollevò e diede uno scampanellino.

Quando non successe nulla, suonò ancora e poi ancora. Finalmente, si alzò e guardò nella cucina, e vedendola vuota come al solito si rivolse ai convitati e gridò: « aspettate qui » e corse via di case.

Ritornò in città, alla porta di Rothschild e bussò. Quando Rothschild rispose il pover uomo furioso lo assalì: « Ehi te, uomo furbo, cosa ti è successo? Mi hai dato la campana sbagliata. Io volevo quella che tu usavi, quella magica che ha portato tutti i servitori ed il cibo — questa non funziona ».

Capendo infine, Rothschild portò l'uomo dentro e gli spiegò gentilmente; « La campana è la stessa. Ma perché funzioni per portare servitori e cibo, la persona che la use deve fare un gran duro lavoro prima, guadagnare soldi, investirli attentamente, amministrarli saggiamente. Allora la campana funzionerà per lui come per me stanotte ».

Mentre la folla cessa di ridacchiare conclude Rabbi Drizin con un breve commentario rabbinico: Così come il pover uomo voleva suonare la campana e magicamente avere servitori e cibo, molta gente oggi vuole suonare la campana e magicamente, istantaneamente avere un'esperienza religiosa. L’ebraismo non funziona in quel modo, egli dice. Prima bisogna lavorare duramente, guadagnare, risparmiare, investire—per aumentare la tua conoscenza ebraica e consapevolezza. Poi quando suoni la campana, funziona. Con l'aiuto di D-o.

II Rabbino conclude con un giro di applausi. E la parse più belle e divertente di tutto questo per me è che in qualche modo questo piccolo racconto ha l'effetto di rendere la folla più unite, facendo della piazza un posto più familiare. Ridendo tutti della stessa sciocchezza—in noi stessi più che altro, poiché chi fra noi non ha mai cercato la campana magica — sembriamo tutti uniti in un momento di condivisa intimità. Quasi una famiglia. Meravigliati di pensarlo! È mai possibile che questa Menorà luccicante nella piazza rispecchi davvero i ricordi della mia infanzia! Soltanto la famiglia è più grande, molto più grande... che io ricordi.

Ora veramente, siamo pronti per l'accensione delle candele di Chanukkà. Rabbi Drizin ci dice che sarà accesa una torcia e trasportata attraverso la folla cosicché ognuno di noi posse toccarla e si unisca così all'accensione delle candele con la stessa torcia. Yosef, il mio amico di prima dalla barba rossa, accende la torcia e si inoltra piano e dolcemente fra la folla portando alta la torcia, dando ad ognuno la possibilità di toccare, di unirsi. I bambini vengono sollevati per toccarla. Non ci sono affollamenti ne spintoni. Siamo tutti sicuri di essere inclusi. Viene da noi ed il nostro turno, sollevo Sara e mette la sue piccola mano vicino a quello di Yosef per un momento.

Ora mentre la torcia si muove attraverso la folla, Rabbi Drizin comincia a cantare e sprona la folla ad unirsi a lui. «Shema Yisrael », vanno le parole, « Hashem Elokenu Hashem Ehad ». « Ascolta Israele, il Signore nostro D-o, il Sign-re è Uno ». Le parole che canta echeggiano il sentimento emanato dal passaggio della torcia—l'unità e la comunalità di questo corpo del popolo ebraico di età, tipi, culture, lingue diverse, nell'affermazione della loro connessione uno all'altro e alla loro fede.

C'è un altro uomo che molto prima—sembra riferirci completamente ad un altro tempo e posto— proclamava altamente e con rabbia i suoi sentimenti antisionisti. Mentre avvicina Yosef mi sento teso. E qui fanno capolino i miei timori paranoici di cittadino da metropoli. Cosa vuol fare? Cercare di fermare Yosef, strappargli la torcia? Ciò potrebbe veramente succedere in mezzo a tutto questo? Sembra pazzesco, ma chi sa...?

Adesso è più vicino, adesso quasi a lato di Yosef. Dalla faccia dell'uomo è impossibile leggerne l'intenzione. Non sta certamente sorridendo ma la sue rabbia recente sembra placate. Una seria espressione. Ora è vicino a Yosef e lo raggiunge. Mette la mano sulla torcia non solo toccandola ma tenendola stretta. Yosef si ferma momentaneamente. Qui è dove la fantasia incontra la realtà, sto pensando.

E poi—vedo questo molto chiaramente, nonostante mi trovi un po' distante—Yosef lo guarda direttamente negli occhi, gentilmente gli pone la mano sul braccio e gli mostra un cenno d'assenso. Un gesto di riconoscimento, una silenziosa richiesta per mutuo rispetto, una comunicazione che getta un ponte su, qualunque apparente distanza posse esserci fra loro. Tutto questo in appena pochi secondi. E poi la mano dell'uomo rilassa la presa. Yosef accenna ancora un consenso e va avanti. E l'uomo recede indietro. Guardandolo ancora dopo qualche momento, mi accorgo che canta.

Da questo momento sino alla fine della serata il senso e la qualità di quell'azione reciproca mi accompagna e comincia ad intrecciare le corde dei sentimenti diversi che ho provato stasera. Completando il suo circuito con la torcia, Yosef la rende infine a Rabbi Drizin che sale nella gru ed è sollevato in cima alla Menorà. La benedizione è detta ringraziando D-o per i miracoli di Chanukkà e per averci dato la possibilità di ricordare e celebrare. E così la prima candela viene accesa nella prima notte di Chanukkà. Rabbi Drizin annuncia che ore verranno serviti i latkes (frittelle di Chanukkà) e vengono portati freschi e deliziosi. Ciascuno fa il bis e qualche volta il tris. Ricominciano i canti ed anche i balli. « Am Israel Hai », ingiunge la melodia, « II popolo d'Israele vive ». E di fronte al palco c'è un circolo di danzatori. Una di loro, un uomo con un cappello da marinaio ed un bambino dietro la schiena, ha saltato su e giù fin da quando la torcia non è stata accesa. II bambino dietro la schiena dorme tranquillamente.

Siedo con la mia famiglia, pensando a Yosef e all'uomo arrabbiato.

Dall'inizio, sto pensando, c'era questo senso d'incongruità, di combinazione opposte sulla serata. II posto sbagliato ed il tempo sbagliato, mi ricordo di aver pensato prima, quando l'uomo arrabbiato era lì intorno.

E poi con la presenza ed il calore della folla, i canti ed il racconto, quel sentimento sembrò essere svanito quasi magicamente. Solo per riaffiorare immediatamente in questa quasi-confrontazione sotto la torcia. E poi di nuovo il potenziale della discordia era deflessa, trasformata come per magia, dal breve scambio non verbale che ebbe luogo. Mi colpisce mentre ora siedo, guardando la gente trastullarsi, danzare, mangiare, che al contrario non era magica per niente. Piuttosto come la storia che raccontò Rabbi Drizin, questo fu l'apparente « magico » risultato di duro lavoro e attento investimento. Un lavoro come quello fatto per organizzare ed ispirare quest'evento, per trasformare magicamente la piazza in un caldo e quasi intimo posto. E nel caso avvenuto al passaggio della torcia, fu proprio quest’intenso lavoro interiore e personale di tale Hassid a produrre la solidità e la base per sapere così bene ed esattamente, in un corto istante, il responso d'amore adatto da dare, in un momento che poteva facilmente concludersi in modo diverso.

Comincio anche a sentire che il racconto di Rabbi Drizin, dopo tutto, ha molto a che fare con Chanukkà, la festività delle luci. La festività che commemora un gran miracolo « un nes gadol ». Quando in un modo apparentemente magico regnava la luce e l'oscurità fu respinta, figurativamente e letteralmente. Per questa ragione la Menorà viene accesa e collocata fuori o in una finestra o... a Union Square.

Ma dietro al momento magico, quando la luce respinge il buio, forse c'è sempre una vita, una generazione, un eon, di duro lavoro e minuzioso investimento. Questo costruisce la nostra conoscenza, consapevolezza e forza spirituale, fino a che saremo capaci di esplodere nel momento del bisogno e rendere manifesto il magico, la luce, la scintilla divine, che è sempre latente in noi e attorno a noi. Suoniamo la campana ed i servitori appaiono...

Si sta facendo tardi ore — almeno per la piccola Sara — e fa freschetto, nonostante il calore dei latkes. Così siamo fra i primi ad andare. Tornando indietro verve Stockton Street, sono di nuovo consapevole del buio e del freddo provato entrando nella piazza. La luce non arriva così lontano; la folla sembra già distante da qua, dove i vagabondi notturni si allungano sulle panchine. In effetti, non abbiamo riempito più della metà della piazza. Alcuni angoli sono rimasti oscuri. E allora?! Almeno, anche qui in questi angoli, una cosa è diversa stanotte — ognuno sta assaggiando i latkes!

Tutto ciò avvenne un anno fa. E per concludere veramente il racconto, vi devo dire che per la prima volta in quindici anni c'era una Menorà di Chanukkà in case mia dopo quella notte in Union Square.

In camera di Sara. L'accendiamo ogni notte insieme, è là sulla finestra, per diffondere la luce fuori nel buio.

La faremo anche quest'anno. E, se D-o vuole, torneremo a Union Square. Dopotutto, come riporta il detto hassidico, non puoi combattere il buio con un bastone. Se vuoi unirti a noi cerca la Menorà. Non puoi non vederla... non in Union Square.

Baruch Bush, attualmente professore di legge alla Hofstra University a Long Island, scrisse questa storia per il giornale California Living.