Il sesto Rebbe di Lubavitch, Rabbì Yosef Yitzchak Shneersohn, arrivò negli Stati Uniti d’America nel Marzo del 1940 dopo essere miracolosamente fuggito dalla Polonia occupata dai Nazisti. Quando arrivò a New York egli si impegnò a ricostruire le infrastrutture Ebraiche per sostituire quelle perse nelle fiamme dell’Europa dell’Est. Infatti egli stabilì la prima yeshiva nell’emisfero occidentale la stessa notte del suo arrivo. Nel decennio che seguì, numerose altre scuole di Torà ed altre istituzioni Ebraiche furono fondate dai suoi emissari negli USA e in Canada.
Lo spirito del Rebbe era indomito e risoluto ma il suo corpo era stato maltrattato per via delle percosse e l’abuso subito per mano del KGB, egli soffriva anche di vari malanni tra cui anche la sclerosi multipla. Di conseguenza il Rebbe ebbe difficoltà a parlare chiaramente e solo i suoi parenti e segretari riuscivano a comprendere le sue parole. Perciò egli smise di dare discorsi chassidici in onore di date particolari sul calendario Ebraico scrivendo invece i discorsi e facendoli pubblicare di modo che i suoi chassidim potessero studiarli.
Il dieci di Shevat era l’anniversario della nonna del Rebbe, la Rabbanìt Rivka. Nell’anno 5710, il Dieci di Shevat sarebbe caduto di Shabbat, per cui il Rebbe fece pubblicare in anticipo un discorso intitolato Batì Leganì, "sono arrivato nel Mio giardino". Quel Shabbat mattina il Rebbe restituì la sua anima al Creatore, all’età di 69 anni.
L’anno successivo era un anno preoccupante per i chassidim Chabad. Molti si resero subito conto che uno dei generi del Rebbe, Rabbi Menachem Mendel Schneerson era perfettamente adatto a succedere al suocero, per via della sua eccezionale erudizione e devozione. Tuttavia Rabbi Menachem Mendel rifiutò di accettare la leadership.
Solamente dopo un anno di richieste e tentativi di convincerlo, egli acconsentì e nell’anniversario della dipartita del suo predecessore, Rabbi Menachem Mendel accettò la leadership del movimento Chabad Lubavitch. Come da tradizione Chassidica, egli formalizzò questo momento dicendo un discorso chassidico durante un farbrenghen, un raduno chassidico in questo giorno storico.
Il discorso del nuovo Rebbe era anch’esso intitolato Batì Leganì ed era basato sullo stesso discorso che il Rebbe precedente aveva scritto l’anno prima. Egli riprese da dove il suocero aveva finito. Nei prossimi decenni, ogni anno, nel giorno del 10 di Shevat, il Rebbe ospitava un grande farbrenghen seguendo la tradizione chassidica che mantiene che il giorno della hilulà di un giusto è un giorno di buon auspicio. Per i chassidim questo giorno aveva un’importanza maggiore poiché era anche il giorno nel quale il Rebbe assunse la guida del movimento.
Ogni anno al farbrenghen il Rebbe diceva un discorso chassidico che iniziava con le parole Batì Leganì ed era sempre basato su un altro capitolo scritto dal suo predecessore. Presto diventò chiaro che i temi discussi in questi discorsi, definivano la leadership del Rebbe.
Che cosa ha di speciale questo discorso? Di quale giardino si parla? Chi viene nel giardino e perché è talmente importante per la nostra generazione?
Segue un adattamento abbreviato dei temi discussi da Rav Yosef Yitzchak.
Il Giardino
Le parole batì leganì vengono dal Canto dei Cantici del Re Salomone.
Il giardino è questo mondo e D-o stesso annuncia il Suo arrivo nel giardino riferendo ad esso come “Il mio giardino” non “un giardino”. Tutto ciò che Egli ha creato appartiene a Lui eppure di tutte le emanazioni spirituali e dei mondi che esistono c’è solo uno al quale Egli riferisce come “Mio” perché è solo qui, in questo mondo inferiore, che Egli vuole la Sua dimora. La luce divina brilla nei mondi celesti eppure D-o desidera manifestare la sua essenza solo in questo mondo fisico.
La sua shechinà (presenza) era qui quando Egli creò il mondo. Tuttavia una serie di peccati la spinse via, cominciando con Adam e Chavà ed il loro assaggio del frutto dell’Albero della Conoscenza. Generazioni successive contribuirono ad allontanare la shechinà ancora di più, di conseguenza essa ascese da un cielo ad un altro.
Tutto questo non era un errore, bensì era parte del piano.
Così come D-o creò il mondo con la visione che esso Gli farebbe da domicilio, Egli aveva anche una visione Chiara di come questa dimora sarebbe stata creata. Egli immaginò un mondo contraddistinto da un gran buio spirituale, dove le creazioni, che avrebbero la libera scelta sarebbero stati capaci di accettare il buio o rifiutarlo, reprimendo il buio ed eventualmente trasformandolo in luce.
È quindi necessario che ci sia un mondo che sembra essere inospitale al suo Creatore. E tramite il lavoro duro dell’eliminare e trasformare il buio, esso diventa un “giardino” bellissimo, un posto che D-o è lietissimo di abitare.
Il Settimo Prezioso
Avrahàm iniziò ad invertire il processo riportando la shechinà quaggiù. Le generazioni successive continuarono il suo lavoro che fu completato da Moshè, la settima generazione dopo Avrahàm poichè come ci dice il Midrash, “I settimi sono preziosi”.
Quando D-o diede la Torà, la Sua presenza tornò in tutta la sua magnificenza, “E D-o scese sul Monte Sinai” (Esodo 19:20). Nonostante questa rivelazione fosse temporanea, qualche mese dopo la shechinà si posò nuovamente sul Tabernacolo appena costruito. Questa volta, essa era lì in via permanenente.
E D-o disse: “Sono venuto nel Mio giardino”.
L’incredibile lavoro di Moshè era solo l’inizio poiché il desiderio di D-o di stabilire una casa terrestre non era ancora stato completamente realizzato. Infatti non basta che la shechinà si manifesti nei limiti del Tabernacolo e, più avanti, nel Tempio a Gerusalemme, bensì lo scopo finale è che il mondo intero, ogni centimetro di esso, sia una casa accogliente, un giardino di piacere per il suo Creatore.
L’animale interno illuminato
Il Tabernacolo costruito da Moshè fa da modello per un santuario identico che ognuno di noi è tenuto a creare per D-o nei nostri cuori. Infatti, le parole del versetto dove D-o incarica gli Israeliti di erigere un santuario alludono a quest’idea: “Essi faranno per Me un santuario, ed Io risiederò in essi”, (Esodo 25:8). I nostri saggi spiegano che la forma plurale, “Io risiederò in essi” ci insegna che D-o desidera dimorare nel cuore di ogni Ebreo.
Pertanto osserviamo il Tabernacolo, il prototipo della dimora divina, per meglio capire come compiere la nostra missione di reprimere e trasformare il buio, creando così un santuario umano personale per la shechinà.
La funzione principale svolta nel Tabernacolo era quella dei sacrifici. In pratica ciò comportava prendere un animale, macellarlo ritualmente per poi offrirlo (interamente o parzialmente a seconda dei requisiti del sacrificio) sull’altare dove un fuoco celeste scendeva e lo consumava.
L’equivalente spirituale di questo modo di servire D-o comporta l’animale presente in ognuno di noi, i desideri e le voglie animalesche che tutti abbiamo. Eppure abbiamo anche un’anima Divina che arde con un fuoco celeste, un amore passionale e inestinguibile per D-o. Tramite la contemplazione e la meditazione della magnificenza di D-o possiamo consumare il nostro animale interno in questo fuoco. Si, è vero che esso è egoista tuttavia può essere educato che un rapporto con D-o è nei suoi interessi poiché non c’è nulla più dolce, splendido ed appagante di un rapporto con il Creatore.
La parola Ebraica per sacrificio è korban e significa “per avvicinarsi”. Come ci si avvicina a D-o? Trasformando il buio interno in luce, una luce che brilla ed illumina il mondo intero.
La virtù della follia
Interessantemente, il materiale usato per costruire le mura del Tabernacolo, il legno di acacia porta il concetto della trasformazione del buio ad un livello più profondo.
Il termine Ebraico per legno d’acacia è shittìm, parola che è connessa al termine shtut, follia. Entrambe queste parole hanno la stessa radice etimologica nella parola Ebraica che significa “allontanarsi”. La follia è un modo di allontanarsi, infatti c’è una retta via, una prescritta dalla razionalità e la logica e chi si comporta incautamente si allontana da questa via assennata.
Secondo il Talmùd, tutti i peccati vengono causati da uno “spirito di follia” che pervade l’individuo. Poiché nessun Ebreo sano di mente sceglierebbe di volontariamente recidere il suo rapporto con D-o, anche temporanemente, per assecondare un desiderio o un capriccio effimero. Ci sono anche le follie globali, ovvero varie consuetudini universali che sono de facto la legge, a prescindere dal fatto che siano saggi, in una determinata situazione, o meno.
Eppure D-o ci dice che Vuole che noi creaimo un santuario per Lui da queste follie. Egli desidera che prendiamo la nostra capacità di agire irrazionalmente e dedicarla al Suo servizio. Egli vuole che vaghiamo dalla strada della razionalità verso la direzione opposta.
Poiché è effettivamente possibile comprendere ciò che non può essere compreso? Tentare di relazionarsi a D-o tramite la logica e l’intelletto è problematico, non perché non siamo abbastanza saggi dal comprenderLo bensì perchè Egli trascende l’intelletto (che è meramente una Sua creazione).
In definitiva, ci relazioniamo a D-o tramite l’abnegazione del nostro ego, incluse le nostre capacità mentali, e “follemente” ci sottomettiamo alla Sua volontà.
È necessario che trasformiamo la follia di questo mondo in una follia sacra.
E così Rav Yosef Yitzchak conclude il suo discorso:
“Allora egli vedrà la realizzazione del verso ‘ed Io dimorerò in essi’, la Divinità brillerà nella sua anima. E questo è ciò [che è scritto nello Zohar] ‘Quando l’altra parte [l’empietà] viene domata’ tramite una persona che riesce a trasformare la follia dell’anima animalesca e le passioni mondane in santità, per lo scopo di studiare la Torà ed osservare le mitzvòt, ‘la Gloria trascendente di D-o viene rivelata in tutti i mondi’. I livelli più alti della divinità vengono rivelati e brillano fortemente.”
Nel corso degli anni, il Rebbe, Rabbi Menachem Mendel Schneerson elaborò molti dei concetti discussi sopra. In questo articolo citeremo alcune idee dal discorso inaugurale del Rebbe dato nel 1951 dove egli spiega l’importanza particolare di queste idee per la nostra generazione.
La settima generazione
Il discorso di Rabbi Yosef Yitzchak riconosce chiaramente il motivo per il quale Moshè ebbe il privilegio di portare la shechinà in questo mondo fisico: perché egli era il settimo.
Anche noi siamo i settimi, spiegò il Rebbe, la settima generazione dall’inizio della chassidut Chabad. Moshé, la settima generazione, fu il primo ad attirare la shechinà in questo mondo; anche noi, la settima generazione porteremo a termine il compito, dando inizio alla redenzione finale.
“Il compito spirituale della settima generazione” dice il Rebbe, “è di portar giù la shechinà, qui in basso, trasformando la follia dell’anima animalesca che ogni uomo sa bene di possedere, e le passioni se non peggio della sua anima animalesca e trasformarle in una follia di santità”.
Il settimo dal primo
Potremmo chiederci, come abbiamo guadagnato questo ruolo elevato? Siamo forse più importanti delle generazioni che ci hanno preceduto?
Il Rebbe spiega che i nostri saggi sono molto precisi nella formulazione delle loro parole. “Tutti coloro che sono i settimi sono amati” dicono loro, non “tutti coloro che sono amati sono i settimi”. In altre parole, essere i settimi non è uno status che si ottiene essendo preziosi bensì la qualità del settimo è nel fatto che egli è semplicemente il settimo. Egli è amato non per il suo lavoro spirituale e neppure perché sceglie di essere prezioso, bensì è nato così.
Dall’altro canto, il fatto che il settimo è considerato talmente prezioso allude alla grandezza del primo, poiché il settimo è settimo solamente in virtù del fatto che egli è il settimo dal primo.
Chi era il primo e perché era così magnifico?
Il primo era il nostro antenato Avrahàm. Per capire la sua grandezza il Rebbe lo paragona ad un altro leader spirituale importante, Rabbi Akiva.
Rabbi Akiva era colmo di amore per D-o. A causa della sua insistenza ad insegnare Torà a tutti, egli fu condannato ad una morte atroce e fu spellato vivo in un mercato pubblico. I suoi allievi che lo osservavano, notarono che un grande sorriso illuminava il suo viso santo. “Com’è possibile patire una tale tortura con un sorriso?” essi esclamarono. Rabbi Akiva rispose: “Ho aspettato tutta la vita di poter santificare il Nome di D-o, chiedendo costantemente a me stesso ‘quando avrò l’opportunità di fare questo sacrificio estremo?’ Ed ora che l’opportunità è giunta non dovrei sorridere?” Rabbi Akiva comprese allora che tramite la mesirat nefesh, il martirio, l’anima giunge al massimo dei livelli.
Avrahàm era diverso, per lui la mesirat nefesh era causale, non qualcosa che egli cercava attivamente. Egli sapeva che il suo obbiettivo era di proclamare e publicizzare il nome di D-o. Come è scritto nel versetto: “[Avrahàm] proclamò, vayikrà, lì il nome di D-o” I nostri saggi commentano, “Non leggerlo vayikrà, egli proclamò, bensì vayakrì ‘egli fece che altri proclamino”. Infatti per Avrahàm non era sufficiente che egli proclamasse e fece in modo che le persone da lui ispirate proclamino anch’essi il nome di D-o ad altri.
Era questo il suo scopo e null’altro. Se nell’ambito di questo suo lavoro era necessario che facesse mesirat nefesh, egli era pronto a farlo. Tuttavia non aveva aspirazioni personali, neanche quelle più elevate ad ottenere quella connessione a D-o che viene tramite la mesirat nefesh.
Infatti il lavoro di Avrahàm era talmente importante che Moshè ebbe il privilegio che la Torà venne data tramite lui solamente perché era l’amato settimo, il settimo dopo il primo. E quando una volta Moshé pensò di paragonarsi ad Avrahàm D-o lo rimproverò, “non stare nel posto dei grandi!”.
Call to action
Dobbiamo capire, continuò il Rebbe che la nostra preziosità in quanto settima generazione e la nostra capacità di compiere il processo di fare di questo mondo in una dimora divina è possibile perchè perpetuiamo la missione iniziata dal primo.
Il modo di fare del primo Rebbe di Chabad, Rabbi Schneur Zalman di Liadi era simile a quello di Avrahàm. Egli non cercava nulla per se neanche la mesirat nefesh poiché sapeva che esisteva per “proclamare lì il nome di D-o” proclamare e portare altri a proclamare.
Nello spirito di Avrahàm ciò significa giungere in posti dove non si sa nulla di D-o, nè sull’Ebraismo e neppure dell’alef bet; e quando ci si trova lì si mette da parte il sè e ci si dedica alla missione da fare.
Sia chiaro che se una persona desidera avere successo con la sua proclamazione, in altre parole con il suo servizio divino, egli deve far si che anche altri, perfino coloro che fino ad allora erano completamente ignoranti, sappino e proclamino a voce.
Per finire con le parole del Rebbe,
“È questo che si richiede ad ognuno di noi della settima generazione, poiche’ ‘tutti coloro che sono i settimi sono amati; nonstante il fatto che siamo la settima generazione non è una nostra scelta ed in alcuni modi è anche contrario alla nostra volontà, cionostante tutti i settimi sono amati.
Siamo molto vicini ai passi del Mashiach siamo infatti alla fine di questo periodo. Il nostro compito spirituale è di completare il processo portando la giù la shechinà, l’essenza della shechina in questo mondo basso.
Rav Naftali Silberberg, Chabad.org
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