Circa cinque secoli fa viveva in Italia una comunità ebraica molto prospera. Annoverava tra i suoi membri uno degli eruditi più notevoli dei suoi tempi: rabbi Ovadià da Bertinoro, esimio autore di un commentario su tutta la Mishnà, dal titolo eponimo: “Bertinoro”. Questa è una cittadina della provincia di Forlì dove viveva una popolazione ebraica composta da varie centinaia di anime e non pochi erano saggi del Talmùd. Rabbi Ovadià (il cui nome significa “servitore di Hashèm)”, diventò il loro rabbino e maestro già da giovane in quanto i suoi talenti si erano rivelati precocemente. Era ottimo oratore quanto ottimo scrittore e la sua reputazione oltrepassò le frontiere dell’Italia. Poco dopo la trentina, rabbi Ovadià decise di stabilirsi in Terra di Israele. Prima della sua partenza aveva già redatto le sue esegesi sui sei trattati della Mishnà nelle quali, con concisione e chiarezza, egli vi fornisce la spiegazione completa riportando immediatamente i brani del Talmùd. Ed ogni studente che voglia approfondire la Mishnà non può fare a meno della sua opera. Da quando fu stampata per la prima volta a Venezia nel 1549, praticamente nessuna edizione della Mishnà viene alla luce senza essere accompagnata da questo modello di commentari.

Rabbi Ovadià intraprese il suo viaggio nel 1486. Egli stese il racconto delle sue peregrinazioni nella corrispondenza che inviò a suo padre a Bertinoro, dopo il suo arrivo a Gerusalemme nel 1488. Queste lettere contengono una variopinta descrizione delle città in cui fece tappa e della vita degli ebrei in quei luoghi, rendendolo uno fra i documenti più preziosi sulla vita ebraica della fine del medioevo.

Ecco alcuni stralci delle sue lettere: «Il giorno di digiuno del dieci di tammùz del 1487, imbarcai a Napoli a bordo del veliero Mossen Blanchi in compagnia di altri nove correligionari. Giungemmo a Palermo cinque giorni dopo. Palermo ospita circa ottocentocinquanta famiglie ebraiche abitanti tutte in una sola strada nel quartiere più bello della città. Sono quasi tutti artigiani. I cristiani disprezzano gli ebrei che devono portare un pezzetto di tessuto rosso sul petto, a mo’ di coccarda sui loro abiti per essere identificati facilmente. Le imposte reali che gravano sugli ebrei sono pesanti. Inoltre, si impiegano gli ebrei quali boia… La sinagoga di Palermo non ha uguali al mondo: i pilastri del cortile esterno sono circondati da vigne di rara bellezza; l’atrio ha tre ingressi, un portico con belle panche per il riposo e in mezzo c’è anche una splendida fontana; l’Aròn in pietra è sormontato da un cupola e i ninnoli che addobbano i Sefarìm valgono quattrocento monete d’oro. La comunità conta attualmente ben cinque cantori. Ecco alcune delle loro usanze: quando una persona muore la sua bara è portata fino all’atrio della sinagoga e lì i rabbanìm eseguono il rito funebre. Se il deceduto era un uomo di sapere il feretro viene portato all’interno dell’aula di preghiere e disposto di fronte all’Aròn, poi un rotolo della Torà viene fatto uscire e collocato all’angolo dell’Aròn. I dignitari della comunità mi invitarono a pronunciare conferenze lo shabbàt prima dell’ufficio pomeridiano. Visto che i miei discorsi piacquero molto, mi vidi nell’obbligo di pronunciarli ogni shabbàt, ma ciò scombussolò il mio programma poiché ero venuto a Palermo con l’intento di proseguire poco dopo per Siracusa dal quale porto salpavano navi veneziane per Beirut. Da lì poi avrei raggiunto Gerusalemme in breve tempo. Ma alla fine non fu così. Alla vigilia di Shavuòt 1488, una galea francese, in rotta per Alessandria, attraccò a Palermo. Fra i suoi passeggeri c’era l’illustre signor Mechulàm di Volterra accompagnato dal suo assistente. Mi rallegrai del fatto di fare il viaggio con loro. Arrivammo a Messina lunedì a mezzogiorno. Messina non è grande quanto Palermo sebbene sia un centro commerciale importante. È una città di grande bellezza con una fortezza impressionante. Quattrocento famiglie ebraiche vi abitano pacificamente in una via tutta per loro. Sono quasi tutti artigiani e sono molto più abbienti dei correligionari palermitani. Un giorno, poco distante dal mio alloggio, ebbe luogo un matrimonio: dopo che vennero recitate le sette benedizioni, la sposa fu montata su un cavallo e condotta attraverso la città; la comunità intera camminava davanti a lei che stava in mezzo agli anziani; bambini e ragazzi portavano torce accese ed emettevano esclamazioni che echeggiavano per le strade. La processione fece il giro del quartiere ebraico mentre i cristiani si divertivano alla vista dello spettacolo senza alcuna intenzione di perturbare la cerimonia.

«Lasciammo Messina a destinazione di Rodi. Gli abitanti di Rodi ci accolsero calorosamente in quanto il capitano era parente del governatore. I dignitari della comunità israelitica non tardarono a presentarsi fino alla nave augurandoci il benvenuto con molta gentilezza anche perché il commerciante Mechulàm era fratello di rabbi Nathàn, uno degli uomini più notevoli fra gli ebrei di Rodi. Una bella camera dotata di tutto punto mi fu riservata. Chiunque abbia visto Rodi, con le sue alte e solide mura, i suoi imponenti portoni e fortini, ha visto una vera fortezza. L’imperatore di Turchia, l’anno stesso della sua morte, vi mandò un esercito per impossessarsene e fece piovere sulla città un diluvio di pietre che ebbe come risultato la demolizione delle mura del quartiere e delle case ebraiche.

Gli israeliti mi hanno raccontato che i Turchi massacrarono tutti gli ebrei al loro passaggio fino ad arrivare alla sinagoga. Lì Hashèm seminò la confusione fra loro a tal punto che cominciarono ad uccidersi l’un l’altro. Per questo miracolo, il governatore fece edificare una chiesa sul luogo stesso e diede in compenso agli ebrei un altro edificio. Ero ancora a Rodi quando egli stanziò cento ducati affinché portassero a termine la costruzione di una nuova sinagoga. Non rimangono più tanti ebrei a Rodi, saranno in tutto ventidue famiglie, tutte povere che si sostentano nutrendosi solo di verdure; niente pane o carne e non comprano mai vino per timore di avere a che a fare con i Greci. Quando vanno al mercato, fanno molta attenzione a non scegliere merce che appartenga ai Greci. Portano i capelli lunghi e sono belli d’aspetto. Le donne ebree esercitano lavori manuali per conto dei nobili dell’isola par aiutare finanziariamente i mariti».

«Giungemmo ad Alessandria il quattordici shevàt, spossati dalla stanchezza. Lì Hashem ci fece trovare grazia agli occhi di un uomo gentilissimo e molto stimato dagli arabi. Si chiama Moshè Grasso e funge da interprete presso i Veneziani. Mi portò in casa sua dove rimasi durante tutto il mio soggiorno ad Alessandria. Ecco come viene celebrato il kiddùsh di shabbàt fra gli ebrei di tutti i paesi arabi: si siedono in cerchio su un tappeto, il coppiere sta in piedi poco distante per servirli; tutti la frutta di stagione viene messa in tavola. Ad un certo punto, l’ospite prende un bicchiere di vino, recita la benedizione del kiddùsh, e beve il vino; il coppiere quindi viene a prendere dalle mani dell’ospite il vino e lo tende, riempito di nuovo, ad uno dei commensali; la stessa operazione viene ripetuta fino a che tutti i presenti siano serviti. In seguito l’ospite prende due o tre frutti, li mangia, poi beve un secondo bicchiere di vino, mentre tutti i commensali gli augurano “buona salute e lunga vita! Colui che gli siede accanto prende anch’egli della frutta e il coppiere gli versa un secondo bicchiere augurandogli “al suo piacere!”. Poi tutti i convitati all’unisono pronunciano “buona salute e lunga vita!”. Ho trascorso sette giorni ad Alessandria, dove incontrai un signore che desiderava trascorrere Pessàch a Gerusalemme con la sua famiglia, e così mi aggregai al gruppo ed effettuai un tratto del viaggio su un cammello. Sul Nilo vidi una specie di enorme rana, chiamata “el Timsach” ovvero “il coccodrillo”, che vive in Egitto dai tempi di Moshè Rabbenu, come scritto dal Rambam. Prima di arrivare a Bulaq, sobborgo del Cairo, notammo due vecchissimi edifici a forma di duomo sulla stessa riva del fiume. Qui si dice che si tratta dei silos che Yossef haTzaddìk fece costruire per immagazzinare il grano durante la carestia biblica (Sefer Bereshit).

«Dodici giorni dopo Purìm, eravamo al Cairo. In questa città vivono all’incirca settecento famiglie ebraiche. Una cinquantina fra di esse sono samaritane; centocinquanta famiglie sono caraite e il resto è costituito da israeliti come noi. I samaritani osservano solo i il Pentateuco e per scrivere si servono di caratteri di un alfabeto diverso dal nostro. Maimonide fa notare che questa scrittura era in uso tra gli ebrei prima dell’esilio assiro-babilonese, come riportato dal trattato Sanhedrìn. Ciononostante, la loro lingua rimane l’ebraico. Gli israeliti li abborriscono perché offrono sacrifici e fanno ardere incensi sul monte Gherizìm. Alcuni di essi lasciarono il Cairo con la nostra carovana per portare il sacrificio di Pessàch su questo monte. Celebrano lo shabbàt da venerdì a mezzogiorno fino a shabbàt mezzogiorno. Oggi come oggi esistono pochi samaritani nel mondo, sono appena cinquecento famiglie.

«I caraiti, come sapete, non credono nelle parole dei nostri saggi, ma hanno padronanza di tutto il Tanàch. Fissano la neomenia in base all’apparenza della luna. Di conseguenza, essi non osservano le stesse date per le ricorrenze come Rosh haShanà e Yom Kippur; celebrano ogni anno Shavuòt di domenica; appendono il Lulàv e le altre piante in mezzo alla sinagoga e considerano sufficiente come mitzvà guardarli e basta; di shabbàt non hanno né forni né candele accese nelle loro case. La maggior parte delle loro teffilòt sono composte dai tehilìm e da altri versetti biblici. E ogni giorno hanno nuove interpretazioni della Torà. A parte i caraiti e i samaritani, vivono al Cairo una cinquantina di famiglie di “Anussìm” o “Marrani” di Spagna, che sono stati costretti all’apostasia. Adesso, tuttavia, sono tornati all’ebraismo. La maggior parte di essi, purtroppo, sono poveri poiché sono stati obbligati ad abbandonare tutti i loro beni in Spagna.

«Il “Nagghìd” – il principe degli israeliti in Egitto - rabbi Nathan haCohen, tentò di dissuadermi dal recarmi a Gerusalemme. Mi disse che tutti gli eruditi e rabbanìm avevano lasciato la città santa per via delle angherie che vi subivano; che gli ebrei erano partiti per scampare alle pesanti imposte che i governatori gravavano su di loro e che ora erano rimasti solo i poveri. Tutto ciò non mi fece scoraggiare e affidai la mia fiducia in Hashèm. La prima tappa in Terra Santa fu Gaza dove vidi le rovine dell’edificio che Sansone aveva fatto crollare sui filistei. Mi recai anche alla grotte di Machpelà a Hebron. Una moschea vi è stata costruita proprio sopra e gli arabi lo considerano un luogo sacro. Gli arabi scendono nella grotta attraverso una lucerna con torce accese poiché vi mantengono una fiamma continua. Tutti coloro che vanno lì per pregare vi lasciano del denaro che lanciano nella grotta attraverso un’apertura.

«Vidi Gerusalemme per la prima volta il 14 Nissan 5248. La sua popolazione totale conta in tutto quattromila famiglie. Quanto agli ebrei, ne rimangono solo settanta famiglie e fra le più povere. Non ce n’è neppure una sulla quale si possa dire che riesce a sostentarsi decorosamente. A tal punto che colui che dispone di un pezzo di pane per tutta la giornata viene reputato ricco… A mio avviso, un uomo accorto, colto ed esperto in politica, potrebbe innalzarsi facilmente al rango di capo sia degli arabi che degli ebrei. Ma non so se fra i cittadini esiste tale uomo dotato di tanta intelligenza e bontà nei confronti dei suoi simili.»

Quando rabbi Ovadià scrisse queste parole, era lungi dall’immaginarsi che sarebbe stato proprio lui ad assolvere a questo ruolo di primo piano a Gerusalemme. Il suo ottimo carattere e la sua immensa scienza furono rapidamente individuati dai correligionari. Qualche anno dopo diventò, in effetti, il capo incontestato della comunità israelitica. Era al contempo molto rispettato dai maomettani i quali ricorrevano spesso alle sue sentenze nei loro diverbi. Rabbi Ovadià combatté subito i mali che affliggevano la comunità. Uno dei più gravi era l’imposta annua la cui raccolta era stata affidata ad alcuni loschi figuri e ciò generava inammissibili ingiustizie di cui pativa lo strato più spesso della comunità. Rabbi Ovadià pervenne a far abolire questa tassa, facendola sostituire da un’altra il cui versamento veniva effettuato direttamente al governo. Questo, unito ad altri miglioramenti, apportò un cambiamento radicale nella vita di ogni ebreo di Gerusalemme. Ben presto questa comunità divenne rifugio per migliaia di famiglie crudelmente espulse dalla Spagna e dal Portogallo, le quali trovarono una comunità ben organizzata e ben gestita e alla quale si integrarono con facilità. Dal canto loro, contribuirono al rigoglio della comunità che li aveva gentilmente accolti apportando la loro ricchezza intellettuale e culturale. Riconobbero subito in rabbi Ovadià un capo spirituale e lo assecondarono nella fondazione di una yeshivà. Con la loro collaborazione, egli fondò anche istituzioni di beneficenza, come orfanotrofi, case per i poveri e ospedali. “Se dovessi encomiare qualcuno, scrisse un turista italiano, non smetterei di tacere su rabbi Ovadià. È l’uomo più riverito e rispettato del paese. Quando pronuncia il sermone, il pubblico ascolta in un profondo e religioso silenzio.”

Quando rabbi Ovadià morì nel 1520, fu pianto non solo dagli ebrei e non ebrei di Terra Santa, ma da tutto il popolo ebraico ovunque fosse. Quel giorno, in tutti gli angoli del mondo, gli ebrei si riunirono per studiare le parole sacre della Mishnà - “le labbra di questo uomo gli parlavano dalla tomba” - e la luce che egli accese nel sapere e nell’erudizione continua a brillare con un uno splendore che si affievolisce mai.