Quando il Bà’al Shem Tov fondò il movimento chassidico, incontrò molti oppositori che non ne approvavano l’approccio e la filosofia.

Uno dei punti che suscitavano perplessità nei cosiddetti mitnagdìm - gli “oppositori” - era la maniera in cui i chassidìm interpretavano il concetto di teshuvà, il cosiddetto pentimento, o ritorno a D-o.

La chassidùt sostiene infatti che tutti debbano fare teshuvà, le persone più ignoranti, i più illustri dotti e persino gli tzadikìm (i giusti): tutti devono pentirsi. Dal canto loro, i mitnagdìm sostengono che tale pratica riduca l’onore della Torà: com’è possibile dichiarare che anche gli eruditi e gli tzadikìm, sui quali - è risaputo - poggia l’esistenza del mondo intero, debbano pentirsi?

Ovviamente, nessuno ignorava il senso del versetto di Kohèlet (7, 20): non esiste tzadìk nella terra che faccia il bene e non pecchi mai; tutti possono sbagliare e quindi tutti devono pentirsi degli errori commessi.

In realtà, però, la controversia poggiava su un’altra questione, infatti i mitnagdìm non avevano nulla in contrario sul fatto che anche gli tzadikìm dovessero cercare di migliorare il loro modo di servire D-o e di “lavorare” su ciò che deve essere perfezionato. Non potevano però ammettere l’approccio rivoluzionario della chassidùt, secondo cui si deve fare teshuvà non solo per i peccati, ma anche per le mitzvòt!

Se Solo Avessi Saputo...

Cosa significa tutto ciò? Il seguente aneddoto può aiutarci a capire questa interpretazione apparentemente contradditoria della teshuvà da parte della chassidùt.

Rabbi Avrahàm Ibn ‘Ezrà (1089-1164), uno dei più illustri poeti, filosofi, astrologi, matematici e commentatori della Torà della nostra storia, viaggiava molto spesso scegliendo di indossare indumenti modesti, sia perché non disponeva dei mezzi che gli permettessero di agire altrimenti, sia perché desiderava mascherare la sua identità e passare per un uomo qualunque. Durante una delle sue soste, fu ospite per alcuni giorni di un ebreo che, pur senza avere la minima idea di trovarsi di fronte al grande rabbi Avrahàm Ibn ‘Ezra, lo accolse calorosamente, nutrendolo con gli onori dovuti a un ospite, offrendogli un alloggio dignitoso e prendendosi cura di lui in maniera irreprensibile. Ben presto si sparse la voce nella comunità che rabbi Avrahàm Ibn ‘Ezra si trovava in città e si venne anche a sapere dove risiedeva. Una folla di persone impazienti di conoscere il grande tzadìk si accalcò all’entrata della casa dell’ospite di rabbi Avrahàm. L’unico che non capiva il motivo di questo improvviso affollamento era l’ospite stesso. Quando gli fu rivelata l’identità della persona che alloggiava presso di lui, il povero ebreo cadde a terra svenuto.

Ripresa conoscenza, si inginocchiò presso rabbi Avrahàm, implorando pietà e perdono per non aver tenuto nei suoi confronti il dovuto rispetto.

«Non riesco a capire il motivo di tanta preoccupazione - disse rabbi Avrahàm; mi hai ospitato benissimo e non mi hai privato di niente: non hai nessuna ragione per scusarti in questo modo!».

«Ma rabbi, - rispose l’uomo - se solo avessi saputo che ospitavo il grande rabbi Avrahàm Ibn ‘Ezra, l’avrei servita con sforzi infinitamente maggiori e onorata come un re!». Rabbi Avrahàm capì e volgendo lo sguardo al cielo, disse: «Padrone del mondo: anch’io imploro il tuo perdono per non averti servito come avrei dovuto. Se mi fossi reso conto della Tua grandezza, ti avrei servito molto meglio di come ho invece fatto finora!».

Maturiamo di Giorno in Giorno...

Questa storia ci illustra chiaramente cosa intende la chassidùt quando sostiene che anche le nostre buone azioni necessitano di pentimento. Infatti, quando passiamo a un livello superiore di quello attuale nella comprensione della Torà e dei suoi insegnamenti, ci rendiamo inevitabilmente conto che la maniera in cui abbiamo servito D-o fino ad ora neppure sfiorava l’ideale del servizio divino. Per questo, ogni giorno dobbiamo vivere una situazione di teshuvà continua, passando da una maniera di servire D-o a un’altra, completamente diversa.

La chassidùt ci insegna quindi che anche il bene è relativo.

Ciò che era bene ieri, non lo è più oggi. Se un adulto si limitasse a comportarsi come un “bravo bambino”, sarebbe terribile: ciò che renderebbe il bambino eccezionale, coprirebbe di ridicolo un adulto, al quale viene richiesto un comportamento completamente diverso.

Ciò vale anche per il nostro modo di servire D-o: ieri abbiamo osservato le mitzvòt e studiato la Torà, ma oggi, essendo passato un altro giorno, siamo “cresciuti”, maturati e perciò dobbiamo adottare un atteggiamento differente, al punto di renderci conto che le nostre precedenti azioni richiedono la teshuvà.

È questo quindi il vero senso della teshuvà: e lo spirito torni a D-o che l’ha dato (Kohèlet 12, 7). La teshuvà è il continuo processo di avvicinamento a D-o, è l’aspirazione a ricondurre la propria anima alla sua fonte divina.

Non si tratta quindi necessariamente di un pentimento dei propri peccati, ma di un ritorno all’origine di tutto, cioè a D-o.