Che cos’è un mikve?
A chi non è esperto, un mikve (מִקְוֶה) dei nostri giorni sembra una piccola piscina. In una religione ricca di dettagli, che incoraggia l’abbellimento e l’ornamento, rispetto all’immagine degli antichi templi o anche delle sinagoghe moderne il mikve è una struttura essenziale, minimale. La sua apparenza, però, tradisce il ruolo centrale che il mikve occupa nella legge e nella vita ebraica. Il mikve fornisce, agli individui, alla comunità e a tutto popolo ebraico, il grande dono della purità e della santità. Nessun’altra prescrizione religiosa, struttura o rito sono in grado di avere sull’ebreo un effetto equivalente e a un livello così essenziale. Lo straordinario potere del mikve, però, è condizionato al fatto che esso venga costruito secondo le norme e i dettagli specifici e complessi che sono delineati nella halachà, la legge ebraica.
I bacini naturali di acqua (gli oceani, i fiumi, i pozzi e i laghi sorgivi) sono considerati mikvaòt, nella loro forma originaria. Tutti questi contengono acqua della sorgente Divina, e dunque, secondo quanto ci trasmette la tradizione, hanno il potere di purificare. Furono creati addirittura prima che la terra prendesse forma, e questi bacini offrono la via alla consacrazione per eccellenza. Però presentano anche delle difficoltà: non sono necessariamente kashèr (idonei) per l’immersione (in questi casi bisogna consultare un rabbino competente); questo tipo di acque, infatti, potrebbero essere inaccessibili o pericolose, per non menzionare i problemi di acque turbolente o assenza di privacy. Per una vita ebraica dunque è indispensabile la costruzione di mikvaòt (bagni rituali in cui immergersi), e questo è stato effettivamente fatto dagli ebrei in ogni tempo e circostanza.
In breve: un mikve deve essere costruito nella terra o come una componente essenziale di un edificio. Dei ricettacoli di acqua portatili, come vasche da bagno, vasche idromassaggio e Jacuzzi, non possono fungere da mikve. Il mikve deve contenere un minimo di circa 760 litri di acqua piovana che sia stata raccolta e travasata nella piscina del mikve, secondo una serie di regole molto specifiche. In casi estremi nei quali è impossibile recuperare acqua piovana, per riempire il mikve possono essere usati ghiaccio o neve derivati da una fonte naturale; anche in questo caso bisogna seguire un insieme intricato di norme riguardo al trasporto e a come l’acqua viene maneggiata.
A una prima osservazione superficiale sembra di vedere solo una piscina, quella che si usa per l’immersione. In realtà, la maggior parte dei mikvaòt hanno due, a volte tre piscine adiacenti. L’acqua piovana accumulata viene conservata nella piscina più bassa; la piscina superiore per l’immersione viene regolarmente prosciugata e riempita con acqua di rubinetto. Le due piscine sono collegate da un canaletto di almeno 5 cm di diametro sul fondo della piscina superiore; il libero flusso (o “bacio”) dell’acqua tra le due piscine fa dell’acqua della piscina superiore un’estensione dell’acqua piovana naturale, conferendo alla piscina superiore lo status legale di mikve, e rendendola quindi valida per l’immersione rituale; un metodo alternativo consiste in due piscine adiacenti a un muro comune che contiene un’apertura. I mikvaòt moderni sono dotati di un sistema di filtraggio e di purificazione dell’acqua. In genere, l’acqua del mikve arriva fino al petto e è tenuta a una temperatura confortevole. Si accede alla piscina attraverso dei gradini . (Alcuni mikvaòt sono dotati di ascensori per offrire una completa accessibilità.)
Il concetto di immersione nel mikve viene spesso confuso con l’idea di “pulizia”. Inoltre, a complicare ulteriormente le cose, nel corso della storia gli Ebrei furono spesso banditi dal fare il bagno nei fiumi delle città; essi costruirono quindi dei locali-bagno, molti dei quali contenevano un mikve o ne avevano uno vicino. Questi fattori, sommati, hanno creato un legame indissolubile tra l’idea del mikve e quella di igiene fisica. Il mikve, però, non è mai stato un “rimpiazzo mensile” del bagno o della doccia. In effetti, la halachà stabilisce che ci si deve scrupolosamente pulire prima di immergersi. Per agevolare ciò, i mikvaòt moderni hanno anche dei locali in cui ci si può preparare (con vasca da bagno, doccia, shampoo, sapone e altri prodotti di pulizia e bellezza).
Fino a non molto tempo fa, la maggior parte dei mikvaòt potevano essere definiti, nel migliore dei casi, “utilitari”: la struttura era finalizzata alla loro funzione in senso stretto; il comfort non era preso in considerazione. Negli ultimi decenni, le donne ebree moderne, il rabbinato e i dirigenti comunitari si sono maggiormente sensibilizzati alle nuove esigenze e quindi alla necessità di una nuova struttura del mikve. In tutto il mondo hanno cominciato a essere costruiti mikvaòt belli, perfino “di lusso”, completi di atrio e sala d’aspetto, dotati di locali per la preparazione completamente attrezzati, piscine di design per l’immersione. Alcuni mikvaòt di oggi possono competere con le lussuose spa europee, e in molti casi offrono alle utenti più comodità di quelle che normalmente si hanno a casa.
Nelle comunità che hanno un alto numero di donne che utilizzano il mikve, l’edificio può ospitare fino a 20 o 30 locali per la preparazione, e da 2 a 4 piscine per l’immersione. In queste strutture, un sistema di intercom collega ogni locale al locale centrale di accoglienza, e un’assistente assicura la privacy di ciascuna utente. Alcuni edifici grandi includono anche sale-riunioni usate per tour informativi e programmi educativi.
Oggi non sono solo le metropoli a vantare un mikve; oggi, c’è un mikve kashèr e confortevole in ogni luogo, perfino nei posti più remoti e nelle località esotiche. Ad Anchorage in Alaska e Bogotà in Colombia; nella piccola località di Yerres in Francia e a Ladispoli in Italia; nella città marocchina di Agadir e ad Assunción in Paraguay; a Lima in Perù e a Città del Capo in Sud Africa; a Bangkok in Tailandia e a Zarzis in Tunisia, così come in quasi ogni città dell’ex Unione Sovietica. In tutti questi luoghi, vi sono rabbanìm che, con le loro mogli, sono ansiosi di assistere ogni donna nella procedura dell’immersione nel mikve. In molte comunità, è disponibile su richiesta un tour del mikve. Quando si arriva in una nuova città o se si è in viaggio, si possono ottenere tutte le informazioni sui mikvaòt locali telefonando all’ufficio comunitario, alla sinagoga ortodossa o al Bet Chabad locale.
La via della purità
L’immersione nel mikve è stata la via che ha aperto le porte della purità fin dalla creazione del mondo. Il Midràsh racconta che dopo essere stato cacciato dall’Eden, Adam sedette in un fiume che scorreva dal Giardino. Questo era parte integrante del suo processo di teshuvà (pentimento) e del suo tentativo di tornare alla perfezione originale.
Prima della rivelazione al Sinài, fu comandato a tutti gli Ebrei di immergersi per prepararsi all’incontro con D-o.
Nel deserto, il famoso “pozzo di Miriam” fungeva da mikve, e l’investitura di Aronne e dei suoi figli come sacerdoti fu contrassegnata dall’immersione nel mikve.
All’epoca del Santuario, i sacerdoti e ogni ebreo che volesse entrare nella casa di D-o dovevano prima immergersi nel mikve.
Di Yom Kippùr, il giorno più santo, al Sommo Sacerdote era permesso entrare nel locale “Santo dei Santi”, il locale più interno e più sacro del Tempio, nel quale non poteva entrare nessun altro essere mortale. Questo momento era l’apice di quel giorno, che comportava una serie di riti, di livello spirituale ascendente, ciascuno dei quali era preceduto dall’immersione nel mikve.
Ai nostri giorni, gli usi principali del mikve sono delineati nel Codice della Legge ebraica: risalgono agli albori della storia ebraica e coprono molti aspetti della vita ebraica. 1. Il mikve è parte integrante del processo di conversione all’ebraismo. 2. Meno nota è l’immersione nel mikve di utensili, come piatti e pentole, prima che possano essere utilizzati da un ebreo.3. Il concetto del mikve è anche il punto centrale della taharà, il rituale di purificazione di un defunto prima che si proceda al funerale e che la sua anima ascenda in alto; questo rituale non prevede l’immersione ma si versa l’acqua manualmente in una specifica maniera su tutto il corpo del defunto. 4. Il mikve è anche usato dagli uomini in diverse occasioni; ad eccezione della conversione, per la quale l’immersione nel mikve è prescritta, tutte le altre circostanze sono usanze. Quelle più comuni sono l’immersione dello sposo il giorno del matrimonio e quella in generale prima di Kippùr. Molti uomini chassidici usano il mikve la vigilia di ogni Shabbàt e delle festività, e alcuni si immergono ogni giorno prima delle preghiere del mattino (nelle comunità in cui vi sono molti ebrei osservanti, vi sono anche i mikvaòt appositi per l’immersione degli uomini). 5. La funzione più importante e più largamente impiegata del mikve è per la purificazione della donna dalle mestruazioni. In questo contesto, l’immersione del mikve rientra nel processo chiamato taharàt hamishpachà (la purità famigliare).
Come ogni aspetto della vita ebraica, anche la purità famigliare comporta una serie di norme dettagliate sul cosa, come e quando. Da sempre, per acquisire famigliarità con queste norme, si studia con una donna esperta in materia. Nelle grandi comunità a volte si organizzano corsi con apposite classi; nella maggior parte dei casi, però, si acquisiscono conoscenza e pratica in questo campo fondamentale studiando a tu per tu con una rabbanìt o un’altra donna esperta. I libri non sostituiscono l’apprendimento diretto, ma possono essere una guida complementare. Di seguito proponiamo una rapida scorsa a queste norme; questo studio non è, e non vuole essere, una sostituzione dello studio approfondito e appropriato in materia.
La purità famigliare è un sistema prescritto nel caso del ciclo mestruale. Dall’inizio della mestruazione, e per sette giorni dalla sua conclusione, fino a che la donna si immerge nel mikve, marito e moglie non possono avere rapporti sessuali. Per osservare questa norma, e non rischiare di trasgredirla, la coppia si deve astenere da alcuni atti che possono portare al contatto fisico diretto, e astenersi da manifestazione fisiche di affetto. Il termine tecnico che definisce lo status della donna in questa fase è niddà, che letteralmente significa “essere separata”.
Dopo una settimana esatta (sette giorni completi) da quando la donna ha stabilito che è cessato il flusso, essa si immerge nel mikve. L’immersione ha luogo la notte, dopo il completamento del settimo giorno, ed è preceduta da una procedura specifica di pulizia accurata. L’immersione è valida solo se l’acqua del mikve copre ogni singola parte del corpo e ogni pelo e capello. A questo scopo, la donna fa prima un bagno, si lava i capelli con i prodotti specifici, si pettina accuratamente e toglie dal corpo qualsiasi cosa che impedisca una immersione completa, cioè qualsiasi cosa che possa interporsi tra l’acqua del mikve e la superficie del corpo.
L’immersione nel mikve costituisce l’apice e la conclusione del processo della taharàt hamishpachà. Per la donna che ha osservato tutti i dettagli di questo precetto, la sera del mikve è un momento speciale e particolare. A volte, però, la donna può provare una forma di ansia o fretta, per ragioni legate o non legate al mikve. In questo caso, deve provare a rilassarsi, trascorrere qualche minuto a riflettere sull’importanza e sulla valenza dell’immersione nel mikve e, senza avvertire alcuna fretta, immergersi nell’acqua. Dopo essersi immersa una volta, mentre sta in piedi dentro l’acqua del mikve, recita l’apposita benedizione e, secondo l’uso più diffuso, si immerge altre due volte. Molte donne sfruttano questo momento di buon auspicio per offrire preghiere personali e comunicare con D-o. Dopo questa immersione, marito e moglie possono riprendere ad avere rapporti coniugali.
La centralità del mikve
Prima di addentrarci nelle dimensioni profonde di questo rituale, dobbiamo analizzare brevemente la centralità del mikve nella vita ebraica.
La maggior parte degli Ebrei, anche quelli che si considerano laici, hanno una certa famigliarità, se non altro teorica, con alcune osservanze come lo Shabbàt, le norme alimentari, Yom Kippùr e altre. Invece, il mikve e la purità famigliare, sono avvolti nell’oscurità, come se fossero delle pagine di un libro che sono state strappate.
Eppure, l’osservanza della purità famigliare è un’ingiunzione della Torà di grande importanza, e la sua trasgressione è equiparata ad altre gravi trasgressioni come mangiare chamètz (cibo lievitato) di Pèsach, la trasgressione intenzionale del digiuno di Kippùr e omettere di entrare nel patto attraverso la milà (circoncisione).
La maggior parte degli Ebrei considera la sinagoga come l’istituzione centrale della vita Ebraica, ma la legge ebraica stabilisce che la costruzione di un mikve debba avere la precedenza sulla costruzione di un luogo di culto; sia la sinagoga che un Sèfer Torà (il Rotolo della Torà, il tesoro più venerato nell’ebraismo) possono essere venduti per raccogliere i fondi per costruire un mikve. In effetti, nell’ottica della normativa ebraica, un gruppo di famiglie ebraiche che vivono insieme non acquisisce lo status di “comunità” se non ha un mikve comunitario. E questo per un motivo molto semplice: le preghiere individuali e anche collettive possono svolgersi quasi in ogni luogo purché vi sia la presenza fisica di dieci uomini adulti, e in effetti ovunque si possono trovare location per le funzioni sinagogali. La vita ebraica matrimoniale, invece, e dunque la nascita delle generazioni future in accordo con la halachà, è possibile solo quando c’è l’accesso a un mikve. Non è un’esagerazione affermare che il mikve è la pietra miliare della vita ebraica e la porta che apre al futuro ebraico.
Il significato spirituale del mikve
Abbiamo già stabilito che la funzione del mikve non è quella di promuovere l’igiene fisica. La radice del concetto del mikve è spirituale.
La vita ebraica è contraddistinta dalla nozione di havdalà: separazione e distinzione. Il sabato sera, quando lo Shabbàt finisce e comincia una nuova settimana, agli Ebrei vengono rammentati i limiti che delineano ogni aspetto della vita. Su una coppa di vino santificato con la benedizione, benediciamo D-o che “separa il santo dal profano, la luce dal buio, Israele dagli altri popoli, il settimo giorno dai sei giorni lavorativi…”.
In effetti, la definizione letterale della parola in ebraico kòdesh (per lo più tradotta come “santo”) è “ciò che è separato”, segregato dal resto e distinto per uno scopo particolare, per la consacrazione.
Per molti aspetti il mikve è la soglia di separazione tra il profano e il santo, ma è anche qualcosa di più. Detto semplicemente, l’immersione nel mikve indica un cambiamento di status, più precisamente una elevazione di status. La sua funzione ineguagliabile giace nel suo potere di trasformazione, nella sua capacità di produrre una metamorfosi.
Riguardo all’immersione degli utensili, come piatti e pentole, quelli che prima non potevano essere usati, dopo l’immersione possono essere usati per mangiare, che per un ebreo è un’azione santa. Così una donna, che all’inizio delle mestruazioni era nello status di niddà, separata dal marito, dopo l’immersione si può nuovamente unire al coniuge nell’intimità matrimoniale, che è un atto santo. Ai tempi del Santuario, le persone che erano precluse dal servizio per il loro status spirituale, dopo l’immersione potevano di nuovo illuminare il Monte del Tempio, entrare nella Casa di D-o, occuparsi dei sacrifici e così via. Il caso del convertito è quello più eclatante: l’individuo che scende nel mikve da gentile, riemerge dalle acque da ebreo.
I comandamenti di D-o, ossia i 613 precetti noti con il termine “mitzvòt”, sono divisi in tre categorie:
I mishpatìm sono le leggi che regolano la vita civile e costituiscono il tessuto morale della vita sociale; sono logiche, comprensibili e ampiamente riconosciute come elementi cardine per una società sana. Alcuni esempi sono il divieto di omicidio, di furto e di adulterio.
Le eduyòt sono i riti e i rituali che possono essere definiti “testimonianze”. Questa categoria comprende molti atti religiosi che evocano momenti storici e fungono da testimonianza per le credenze-cardine della fede ebraica: ad esempio l’osservanza dello Shabbàt, la celebrazione di Pèsach e la mezuzà affissa sullo stipite della porta.
I chukkìm sono principi sovrannaturali. Si tratta di decreti Divini sui quali l’intelletto umano non può formulare nessun tipo di valutazione; essi sfuggono all’intelletto e alla comprensione umana. Da tempi immemorabili questa categoria di precetti è stata oggetto di scherno e, a detta dei diffamatori dell’osservanza ebraica, una presenza scomoda e disonorevole. Per l’ebreo osservante, essi sono la massima esemplificazione del concetto di mitzvà, un terreno incontaminato di legame con D-o. Questi precetti sono riconosciuti come grandiosi, in grado in influenzare l’anima al livello più profondo. Non essendo intralciati dai limiti dell’intelletto umano, questi statuti sono messi in pratica per un solo motivo: eseguire la parola di D-o. Alcuni esempi sono le norme della kasherùt, il divieto di indossare shaatnèz (indumenti che contengono un misto di lana e lino), e le norme della purità rituale e del mikve. Alla fine, è impossibile comprendere la vera ragione della struttura della purità famigliare e del suo apice, ossia l’immersione nel mikve. La osserviamo perché D-o ce l’ha comandato. Eppure, vi sono degli scorci che possono aiutare a dare una dimensione e un significato a questa esperienza.
All’inizio, c’era solo acqua. Un composto miracoloso, la fonte primaria e l’elemento che dà vita a ogni sostanza, e, per estensione, la vita come la conosciamo noi. Ma l’ebraismo ci insegna che c’è di più. Questi attributi dell’acqua, come sorgente ed energia vitale, sono rispecchiati nella sfera spirituale. L’acqua ha il potere di purificare: di ripristinare e rigenerare la vita nel nostro spirituale, essenziale io.
Il mikve personifica sia l’utero sia la tomba; la porta della vita e quella della vita dopo la morte. In entrambi i casi, la persona viene privata di qualsiasi potere e capacità. In entrambi i casi, c’è una modalità di affidamento totale, di rinuncia totale a esercitare qualsiasi tipo di controllo. L’immersione nel mikve può essere intesa come un atto simbolico di auto-abnegazione, una conscia sospensione del sé come forza autonoma. Agendo così, l’ebreo che si immerge mostra il desiderio di arrivare all’unità con la Fonte di ogni vita, di tornare all’unità primordiale con D-o. L’immersione manifesta l’abbandono di una forma di esistenza per abbracciarne un’altra infinitamente più elevata. Su questa scia, l’immersione nel mikve è descritta non solo in termini di purificazione, rivitalizzazione e ringiovanimento, ma anche, e forse principalmente, in termini di “rinascita”.
La purità famigliare è un vecchio tabù?
In passato, le donne mestruate erano fonte di sgomento e paura. Nel migliore dei casi venivano evitate, nel peggiore dei casi la gente le scansava ed erano fisicamente messe da parte. Spesso, venivano incolpate di tragedie e sventure, come se avessero contaminato l’ambiente con il loro respiro o il loro sguardo. Questa era una reazione semplicistica e fuorviata a un fenomeno complesso la cui logica sfuggiva alla mente primitiva. In queste società, si poteva far pace con le mestruazioni soltanto attribuendole agli spiriti malvagi e demoniaci, e adattando la struttura sociale in maniera da poterle tenere isolate.
In quest’ottica, la cadenza che l’ebraismo dà al matrimonio è percepita da molti come una regressione a tabù arcaici, come un sistema radicato in atteggiamenti antiquati e come forma sempre presente di misoginia. In verità, la purità famigliare è la celebrazione della vita e della nostra relazione umana più preziosa, e può essere compresa appieno solo attraverso una profonda conoscenza del concetto di purità e impurità.
L’ebraismo insegna che la fonte di tutta la taharà (purità) è la vita stessa. Per converso, la morte è portatrice di tumà (impurità). Tutti i tipi di impurità rituale – e la Torà ne descrive molti – hanno la loro radice nell’assenza di vita o, in qualche misura, in un piccolo assaggio della morte.
Nella sua mera essenza, la mestruazione indica la morte della vita potenziale. Ogni mese il corpo della donna si prepara alla possibilità di concepire; il rivestimento uterino viene sviluppato, ricco e completo, pronto a servire da culla alla vita, in attesa di un ovulo fertilizzato. La mestruazione costituisce lo sfaldamento del rivestimento, la cessazione di questa potenzialità.
La presenza interiore di vita potenziale infonde il corpo della donna di santità e purità. Con l’eliminazione di questo potenziale, si insinua l’impurità, conferendo alla donna uno status di impurità, o, più specificamente, di niddùt. L’impurità non è né malvagia né pericolosa, e non è tangibile. È una condizione spirituale, determinata dall’assenza di purità, come il buio è determinato dall’assenza di luce. Solo l’immersione nel mikve dopo tutto il processo preparatorio, ha il potere di cambiare questa condizione.
Il concetto di purità e impurità come stabilito dalla Torà e applicato nella vita ebraica è unico; non ha paralleli o equivalenti nell’era post-moderna. Forse questo è il motivo per cui è difficile per la mente di oggi relazionarsi a questa nozione e darle l’opportuna importanza.
In tempi antichi, la tumà e la taharà erano aspetti centrali e determinanti. Lo status di un ebreo, che questi fosse puro o impuro, era centrale nella vita ebraica; dettava e disciplinava il coinvolgimento della persona in tutta la sfera rituale. In particolare, la tumà impossibilitava la persona a entrare nel Santuario e dunque a portare i sacrifici.
C’erano diversi tipi di impurità che la persona poteva contrarre, e che influivano sulla vita quotidiana e sul servizio nel Tempio, e c’era un numero corrispondente di processi di purificazione. In tutti i casi, L’immersione nel mikve costituiva il completamento della purificazione. Perfino per la persona ritualmente pura, ascendere a un livello spiritualmente più alto o a un livello di santità più alto richiedeva l’immersione nel mikve. Di conseguenza, l’istituzione del mikve ricopriva un ruolo cruciale nella vita ebraica.
Ai nostri giorni, senza il Tempio di Gerusalemme, il potere e l’impatto dello status rituale nelle relazioni sono svaniti, e sono caduti nell’oscurità. Tuttavia, resta ancora un’area in cui purità e impurità continuano a essere rilevanti e rispetto alla quale vige l’ingiunzione biblica dell’immersione, ed è la sessualità. Per comprenderne il motivo, dobbiamo prima studiare come la Torà vede la sessualità.
L’ebraismo e la sensualità
La convinzione che sessualità e spiritualità siano incompatibili – più precisamente antitetiche – è estranea alla Torà, ma è da molti attribuita ai filosofi che aderiscono alla vasta dottrina, mitizzata, “giudaico-cristiana”. Vi sono poche concezioni che hanno arrecato più danno di questo equivoco così diffuso.
In netto contrasto con il dogma cristiano per cui il matrimonio è visto come una “concessione” alle debolezze della carne e il celibato è una virtù, la Torà elogia il matrimonio e lo colloca nella sfera della santità. Nell’ambito di questa unione consacrata, l’espressione della sessualità è un imperativo, una mitzvà. In effetti è la prima mitzvà della Torà e uno degli impegni più santi dell’uomo.
Inoltre, il rapporto amoroso è il presupposto della possibilità e del potenziale per una nuova vita, per la formazione di un nuovo corpo e la discesa dal cielo di una nuova anima. Diventando uno, l’uomo e la donna diventano parte di qualcosa di più grande; trascendendo se stessi, attirano in basso e perfino toccano il Divino. Entrano in società con D-o, e si avvicinano al livello in cui acquisiscono l’attributo Divino di creatori. In realtà, la sacralità dell’unione intima resta immutata anche quando non esiste possibilità di concepire. In senso metafisico, l’atto e il suo potenziale restano uniti.
La sessualità è la forza primaria nella vita matrimoniale; è l’unico linguaggio e l’unica espressione di amore che l’uomo e la donna condividono. Un rapporto solido tra marito e moglie non è solo la spina dorsale dell’unità della loro famiglia, ma è determinante per il mondo in senso lato. Le benedizioni di fiducia reciproca, stabilità, continuità e alla fine comunità, fluiscono tutte dall’impegno che marito e moglie hanno tra di loro e l’impegno per un futuro insieme.
Confermando il loro impegno attraverso l’intimità, la coppia contribuisce a una società sana e vibrante, e alla fine alla realizzazione del piano Divino: un mondo perfezionato dall’uomo. Nella loro unione privata e personale, essi sono forieri di pace, armonia e guarigione, a livello microcosmico ma con riverberi macrocosmici; dunque, sono impegnati nella più sacra delle attività.
In quest’ottica, risulta chiaro il motivo per cui i rapporti coniugali sono spesso chiamati “il Santuario delle attività dell’uomo”; e l’ingresso nel Santo era, e continua a essere, condizionato alla purità rituale.
Nonostante che ai nostri giorni non possiamo servire D-o nel Tempio fisico di Gerusalemme, possiamo erigere un santuario nella nostra vita. L’immersione nel mikve è l’ingresso nel terreno santo della coniugalità.
Gli alti e bassi del desiderio
Le norme della purità famigliare sono un’ingiunzione Divina. Non c’è nessun’altra ragione essenziale migliore, più legittima o più logica per la loro osservanza. È un comandamento difficile, una disciplina che ci chiede il nostro tempo, la nostra psiche e i nostri sentimenti. È una forza in conflitto con la carne, un modo di vita che una persona media probabilmente non sceglierebbe da sola né escogiterebbe per conto suo. Richiede la sospensione volontaria dell’auto-determinazione, la sottomissione dei nostri desideri più intimi a un’autorità vincolante più grande.
E in tutto questo giace il potenziale di questa mitzvà. Sapere che essa origina in qualcosa di più grande di noi, che non è basata sui sentimenti che si provano uno per l’altro o su decisioni soggettive, permette alla taharàt hamishpachà di operare per il beneficio reciproco di marito e moglie. Ironicamente, questa mitzvà “imperscrutabile” rivela le sue benedizioni forse più di qualsiasi altra, ogni giorno, in maniera tangibile. Le sue ricompense sono proporzionate alla complessità della sua osservanza.
A prima vista, il sistema del mikvè presenta solo limiti e costrizioni, ossia, perdita della libertà; in verità, l’emancipazione nasce dalla restrizione. Bambini (e adulti) che hanno autostima, sono sicuri di sé ed equilibrati, sono i bambini che sono stati disciplinati: essi capiscono i limiti e imparano l’auto-controllo. I Paesi sicuri e stabili sono quelli il cui territorio è circondato da confini ben definiti e sorvegliati. La delineazione di parametri precisi crea stabilità in mezzo al caos e alla confusione, e permette di attraversare la pianura che chiamiamo “vita” in maniera produttiva e progressiva. E non vi è ambito della vita in cui questo è più necessario di quello dei nostri rapporti più intimi.
“Da ogni albero del giardino puoi mangiare, ma dall’Albero della Conoscenza del Bene e del Male non devi mangiare…”. Questo è ciò che D-o comandò a Adamo ed Eva il giorno in cui furono creati. Ma essi si lasciarono andare in quel fatale venerdì pomeriggio, e la storia dell’umanità cambiò per sempre. La natura complicata della sessualità umana ha le sue origini in questa vicenda. L’Albero della Conoscenza aveva in sé un misto di bene e male, e per l’uomo primordiale, abbandonarsi a questa “conoscenza” portò a un nuovo ordine: un mondo in cui bene e male sarebbero stati mischiati, un mondo fatto di confusione e di sfide, di continue scelte da prendere e dal potenziale illimitato. I rapporti intimi – una delle tante funzioni biologiche umane – non sarebbero più stati naturali e semplici. La cacciata dal Giardino dell’Eden comportò anche una nuova sessualità: feconda, con potenzialità, e carica di tensione. Avrebbe avuto in sé la chiave dell’estasi ma anche del dolore atroce, di un allettante esito ma anche della sensazione più devastante di vuoto. Un’unione significativa avrebbe necessitato di un impegno di ferro e di essere costantemente alimentata dall’uomo e dalla donna. Però, anche il massimo sforzo dell’uomo avrebbe avuto bisogno dell’aiuto dall’Alto. La benedizione sarebbe fluita da un bacino chiamato “mikve”, e l’Eden, come era prima del peccato, sarebbe stato raggiungibile.
Per quanto possa sembrare banale, il mikve offre alle coppie la possibilità di rivivere la “luna di miele” nel corso del matrimonio. La noia, condizione apparentemente innocua, può insinuarsi in ogni relazione e sgretolarne le fondamenta. La separazione mensile forzata sviluppa sentimenti di desiderio e brama, o quantomeno un sentimento di apprezzamento, seguito dall’eccitamento della riunione.
Nel corso della vita, la continua disponibilità sessuale può portare a un calo di desiderio e di interesse. La pausa mensile insegna alla coppia che il tempo che trascorrono insieme è prezioso, e dà loro qualcosa da pregustare quando restano separati. Ogni mese, sono separati (e non necessariamente quando è più facile o conveniente!) e si aspettano l’un l’altro, contando i giorni fino a che possono di nuovo riunirsi. A questo riguardo il Talmud afferma: “Affinché lei sia amata come il giorno del matrimonio”.
Il rapporto uomo-donna si sviluppa con una modalità di allontanamento e ritorno. La Torà insegna che Adamo ed Eva originariamente furono creati come un essere androgino. Successivamente, D-o li separò, assicurando a ciascuno indipendenza da un lato, e dall’altro fornendo la possibilità di una unione con l’altro frutto di una scelta consapevole. Da quel momento, l’uomo e la donna continuano a separarsi e a tornare insieme. Il sistema basato sul mikve fornisce alla coppia sposata questa dinamica. All’interno del loro impegno reciproco a vivere insieme e a essere leali l’un l’altro, c’è sempre questo meccanismo di “risveglio dei sensi” che agisce. D-o voleva che l’uomo e la donna si trovassero reciprocamente in modo autonomo e che si sforzassero di far funzionare il rapporto in maniera continua, in un continuo processo per divenire “una carne”.
Gli esseri umani, quasi universalmente, condividono una tendenza innata al proibito. Il re Salomone, il più saggio fra gli uomini, parla delle “acque rubate che sono più dolci”. Quanti individui, perfettamente intelligenti in altri ambiti, hanno messo a rischio il loro matrimonio e le loro famiglie perseguendo l’illecito per via del suo presunto richiamo al romanticismo e alla novità? Il mikve introduce un nuovo scenario: il coniuge – il compagno di vita, giorno dopo giorno, nel bene e nel male – diventa temporaneamente inaccessibile, proibito, vietato. Spesso, questo fornisce alla coppia la ragione e l’opportunità di riconsiderare l’altro. In questo lasso di tempo in cui si è separati, vissuto in quest’ottica, essi si vedono e si avvicinano apprezzandosi di più.
La disciplina della taharàt hamishpachà aiuta anche in altri ambiti: la fluttuazione e la diversità nel desiderio sessuale tra uomo e donna non possono mai essere completamente appianate, eppure la scansione mensile del mikve può alleviare le tensioni che originano da ciò. Per una coppia che si deve astenere dal contatto fisico per un minimo di 12 giorni al mese, il tempo che hanno per stare insieme è l’apice per entrambi, un momento prezioso e stuzzicante.
Per molte donne, il periodo in cui sono niddà offre un momento di solitudine e introspezione. Inoltre, questo periodo incrementa il senso di autonomia sul proprio corpo e, effettivamente, anche sul rapporto sessuale con il coniuge. La consapevolezza che l’uomo non possa soddisfare i propri desideri sempre e in ogni momento, conferisce forza e conforto alla donna.
I benefici che la purità famiglia apporta alla vita matrimoniale sono stati riconosciuti da molti esperti, ebrei e non. Tutto ciò può essere oggetto di discussione e critiche, come ogni cosa; alla fine, però, l’impatto che il mikve esercita sul popolo ebraico – la sua promessa di speranza e redenzione – è radicato nella Torà e scaturisce dalla fede in D-o e nella Sua saggezza perfetta.
Il mikve prima del matrimonio (e in altri momenti
L’ebraismo vuole che la sessualità sia un ambito santificato. Non è sufficiente che l’intimità nasca dall’impegno e sia votata all’esclusività; deve anche essere sacra. Dunque, il primo momento obbligatorio per l’immersione nel mikve è alla vigilia del matrimonio.
In senso stretto, il mikve prima del matrimonio non è subordinato all’impegno di osservare scrupolosamente la taharàt hamishpachà; però, non può nemmeno essere considerato completamente isolato e al di fuori di essa. Semplicemente, è la prima volta che alla donna ebrea è comandato di purificarsi così. E è un momento di auspicio e un grandioso inizio per una nuova vita assieme alla persona che si ama.
Dopo aver studiato tutti i dettagli e dando loro la giusta considerazione, il mikve diventa un rituale che può essere facilmente incluso nella preparazione al matrimonio da ogni sposa e sposo ebrei. La data del matrimonio deve essere programmata in base al ciclo mestruale della donna, in maniera che possa immergersi prima delle nozze.
Pianificare e programmare un matrimonio richiede un enorme dispendio di energie e tempo, nella speranza che un matrimonio perfetto equivalga a un nuovo inizio perfetto nella vita. Eppure, tutti sanno che gli uomini hanno i loro limiti; ciò che più vogliamo (salute, fortuna, figli), è al di là della sfera di ciò che possiamo controllare. Nel momento in cui pronunciamo l’antico augurio “mazal tov”, offriamo una preghiera al Sign-re, chiedendoGli di benedire la nuova coppia con bontà in abbondanza. L’immersione nel mikve è uno strumento importante per attirare le benedizioni Divine all’interno del matrimonio.
Fino a che una donna mestrua, il suo ciclo mensile scandisce il ritmo delle relazioni coniugali, e ogni mese, è una mitzvà per marito e moglie apportare un rinnovamento con l’acqua del mikve. Per coloro che non si sono veramente impegnati in questo all’inizio del matrimonio, non è mai troppo tardi per cominciare a osservare le regole della purità famigliare. Allo stesso modo, anche se la loro osservanza deve essere continua e costante, se si verifica una qualche interruzione in questa osservanza, ciò non deve frenare dal continuare a impegnarsi in questo senso. Questa pratica non è nemmeno subordinata all’osservanza di altri precetti della Torà. Il mikve non è, come spesso si crede, prerogativa esclusiva delle persone strettamente osservanti.
È importante essere scrupolosi e dare la dovuta considerazione a questa pratica prima di concepire figli. Ci viene insegnato che il mikve è il condotto che porta al mondo un’anima elevata rivestita di un corpo spiritualmente sano che la possa accogliere.
Per le donne dopo la menopausa, una immersione conclusiva nel mikve offre purità al resto della loro vita. Anche una donna che non ha mai usato il mikve prima, dovrebbe fare lo sforzo di immergersi dopo la menopausa (non è mai troppo tardi, anche se sono passati molti anni dalla menopausa); in questo modo, si permette all’intimità di essere benedetta da D-o.
Il dono più unico e grande che D-o dà all’umanità è la teshuvà, la possibilità di tornare, di ricominciare da zero e scrollarsi di dosso il passato. La teshuvà permette all’uomo di elevarsi sopra alle limitazioni imposte dal tempo e influisce sulla nostra vita anche retroattivamente. Dunque, anche un’unica immersione nel mikve in una fase più tarda della vita (che per alcuni potrebbe sembrare insignificante, come un atto veloce e rimedio facile dell’ultimo momento), unita a dedizione e devozione è una grande impresa, che porta la purità, e con essa il suo potere rigenerante, non solo nel presente ma anche nel proprio passato.
In questo modo, ogni donna può connettersi e far parte di una tradizione continuativa, che dura da generazioni. Attraverso il mikve ella viene in immediato contatto con la fonte di vita, con la purità e la santità, ossia, viene a immediato contatto con D-o, Che la circonda e Che è in lei, sempre.
Dall’introduzione di Rivkah Slonim a Total Immersion: A Mikvah Anthology (Jason Aronson, 1996)
Bibliografia
Rav Mordechai Eliyahu. Le Vie della Purezza, a cura di Rav Shlomo Bekhor e Nadav Eliyahu. Mamash Edizioni Ebraiche.
Bulka, Reuven P. Jewish Marriage: A Halakhic Ethic. Ktav Publishing House.
Kaplan, Aryeh. Waters of Eden: The Mystery of the Mikvah. Moznaim Publishing
Lamm, Norman. The Modem Jewish Woman: A Unique Perspective. Lubavitch Educational Foundation for Jewish Marriage Enrichment.
Slonim, Rivkah. Total Immersion: A Mikvah Anthology. Jason Aronson.
Di Rivkah Slonim, traduzione Deborah Cohenca Klagsbald
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