Ogni mattina, reb Ghil è il primo a giungere al Kotel (il Muro Occidentale, comunemente denominato “Muro del Pianto”) per le teffilòt– preghiere prima dell’alba. Arriva per primo perchè vuole disporre in ordine le sedie che serviranno a coloro che desiderano indirizzare a D-o le loro suppliche all’aurora. Arriva per primo per svegliare il mattino anzichè farsi svegliare dal mattino.

Qualche tempo fa, un nuovo viso si presentò a reb Ghil e ai suoi amici con la richiesta di aggregarsi alla compagnia: era un turista americano che si ambientò rapidamente e facilmente a questo minian. Si faceva chiamare Leibel e aiutava reb Ghil nella sua encomiabile opera di volontariato.

Un giorno domandò a Reb Ghil: “Ma qual’è davvero il suo lavoro?” Sorridendo, reb Ghil gli rispose: ”Aiuto gli uomini a mettere i Teffilin, qui, davanti al Kotel, il luogo più sacro dell’ebraismo.” Leibel lentamente ribatté: ”Io invece ho aiutato la gente a metteri i Teffilin nei campi di massacro!” Reb Ghil stento’ a credere alle sue orecchie. Completamente sconvolto, gli chiese di sedersi e di narrargli la sua storia.

Leibel spiegò che aveva appena celebrato il Bar-Mitzvà quando i nazisti, in una delle loro “visite”, avevano catturato lui e la sua famiglia. Un attimo prima di uscire di casa, suo padre gli raccommandò di prendere degli stivali belli grandi per mantenere i piedi al caldo. Leibel ubbidì, andò a prendere i suoi teffilìn e il suo Siddur-Libro di preghiere che gli erano appena stati comprati e li infilò in quel paio di stivali smisuratamente grandi per lui.

Il viaggio nel vagone bestiame fu orribile e, all’arrivo, Leibel fu separato immediatamente dai suoi cari. A causa della sua bassa statura, gli fu ordinato di unirsi al gruppo dei bambini, a sinistra, ovvero di raggiungere la fila destinata alle camere a gas. Gli ebrei sapevano già a cosa servivano quelle enormi fabbriche. Adunati in una aula immensa, fu ingiunto ai bambini di svestirsi per la “doccia”. Leibel emise l’osservazione che quello non era un modo decente di fare ingresso nel Cielo. Disse a tutti di mettersi in fila per cinque e di camminare tutti insieme: sarebbero entrati nella camera a gas cantando “Ani Maamin..” (“Io credo con piena fede nella venuta del Mashiach").

Le guardie naziste erano esterefatte: bambini ebrei che cantavano a squarciagola col viso contorto dallo sforzo, dalla fiducia e dalla dignità, dirigendosi verso le porte delle fameliche camere di eccidio! Uno degli ufficiali sbraito’: ”Silenzio!”. Incomprensibilemente, abbaiò il comando di recarsi nella stanza dove giacevano sul pavimento gli abiti dei prigionieri e di raccoglierli. Ed è così che quel gruppetto di bambini scampò alla morte programmata. Mentre stavano in piedi per ricevere le uniformi a righe, Leibel vide gli stivali di suo padre buttati vicino ai vecchi vestiti. Alchè, impartì ai suoi compagni di sventura di fingere di litigare provocando disordine e scompiglio con una rissa rumorosa. I ragazzini non potevano rifiutare di aiutare l’amico, la cui provvidenziale ispirazione aveva permesso loro di aver salva la vita.

Leibel riuscì ad avvicinarsi agli stivali e recuperò, senza che i nazisti lo notassero, i suoi preziosi Teffilìn e il suo Siddur. Durante i lunghi mesi che trascorse in vari campi, riuscì miracolosamente a nascondere il suo tesoro. Così, non solo lui, ma tanti altri ebrei poterono attuare il comandamento dei Teffilin ogniqualvolta ciò fosse possibile. Tra le fiamme dell’inferno, i figli d'Israele continuavano ad ottemperare alla Volontà Divina con questa notevole Mitzvà, rischiando di perdere la vita.

Reb Ghil e Leibel parlarono fino all’ora della teffilàt shacharit-preghiera mattutina, quando il sole scaccia l’oscurità e i ricordi della notte. Dopo il servizio, Reb Ghil occupò il suo posto davanti al Kotel e si rivolse ad un soldato che si stava avvicinando col suo reggimento al fine di proporgli di eseguire la Mitzvà dei Teffilin. Il soldato lo squadrò con disprezzo, quasi con pietà, poi fischiò tra i denti “Questa roba ridicola non è fatta per me!!”.

Indi, reb Ghil, gli riportò integralmente tutto il racconto che aveva appena udito dalla bocca di un sopravvissuto ai campi di sterminio. Dispiaciuto e imbarazzato, il militare guardò per terra poi volse gli occhi verso il cielo. Cogli occhi umidi, rimboccò la manica sinistra, accettò che reb Ghil gli ponesse i teffilìn sulla fronte e sul braccio e recitò sollennemente la benedizione ancestrale dello Shemà Israel. L’indomani, reb Ghil riferì l’accaduto al suo amico Leibel. Questi sorrise e dichiarò: ”Allora, dopo sessant’anni, aiuto ancora altri ebrei a mettere i Teffilin!”