È naturale porsi una domanda: perché la Torà prescrive di portare mezzo shekel e non, piuttosto, un intero shekel?
Il precetto ha un significato di pentimento e rettificazione per il peccato del vitello d’oro. Poiché Israel si rese colpevole di questo fatto solo per mezza giornata, più precisamente per sei ore, D-o disse: «Per sei ore avete reso onori a un idolo, allontanando da me ciò che mi spetta. Voi dovete rendermi il sostegno che mi avete tolto e darlo per il Servizio a me dovuto». I Saggi spiegano che, poiché Israel peccò per sei ore, e cioè per mezza giornata, proprio da qui si deduce che la rettificazione doveva consistere nel pagamento di mezzo shekel (Talmud Yerushalmi Pe’a 2).
Questo precetto insegna all’uomo, spiegano ancora i Saggi, che pur dedicandosi completamente al Servizio Divino, egli comunque può giungere solo a impegnare meta delle sue capacità. Nessuno, quindi, dovrebbe mai vantarsi di aver servito D-o con tutte le proprie possibilità e tutte le proprie forze, poiché anche colui che vi si dedica completamente, e sarebbe perciò portato a credere di aver dato tutto ciò che è possibile dare a D-o, in realtà non ha dato altro che mezzo shekel.
Il tributo degli shekalim viene offerto come riscatto dal peccato del vitello d’oro. Le donne, pero, non si resero colpevoli di quella colpa e, poiché un uomo senza una donna non è che mezza persona, la richiesta fu di portare solo mezzo shekel.
Un’altra spiegazione insegna che solo una meta della persona pecca, mentre l’altra meta, la sua essenza spirituale, rimane lontana da ogni colpa.
L’uomo ha radici e fronde. Le sue radici sono in cielo, e sono costituite dall’anima pura.
Le sue fronde, pero, sono in terra e costituiscono le sole possibilità che l’anima ha di manifestarsi, ponendosi come tramite per rivestire di significati profondi le azioni materiali. L’uomo, tramite il peccato, causa un allontanamento tra le due metà di un unico insieme, che ha solo, però, effetti sui rami, separandoli dalle radici celesti, dalla linfa vitale, che rimane comunque sempre in contatto con la Divinità. Il pentimento consiste, così, nel riconnettere i rami con le radici; solo tramite questo si è in grado di elevare ciò che si faquotidianamente, e tutto ciò che potenzialmente si è in grado di fare, portando le proprie azioni a un livello di vicinanza maggiore alla divinità.
Nella porzione di Shekalim il versetto dice: quando conterai i figli di Israel (Shemot 30:12). Il verbo impiegato in ebraico, tissà, può avere un significato sia di contare sia di sollevare. I Saggi hanno spiegato che la Torà, qui, esorta a sollevare le proprie azioni, affinché si avvicinino, fino ad aderire completamente, alle radici dell’anima, rendendo l’uomo, cosi, nuovamente “intero”. Non esiste colpa che l’uomo possa commettere con la sua parte materiale, che sia in grado di intaccare le sue radici superiori, che continuano a vivere nella purezza dei Cieli. Non c’è, quindi, ragione per dare più di mezzo shekel come redenzione dalla colpa. Tramite questa mezza moneta, la redenzione sarà comunque completa, perché ciò che peserà nel giudizio di D-o sarà uno shekel completo, cioè un essere completo.
Ciò dovrebbe essere fonte di grande incoraggiamento per iniziare un percorso di teshuvà, pentimento. La Torà esorta colui che si pente dicendogli che è necessario comprendere che l’anima è sempre e solo imbevuta di puro merito e una colpa non può causare altro che un allontanamento della parte materiale da essa, che non ne rimane affatto intaccata. Rettificando la colpa compiuta solo da una meta dell’essere umano, ci si troverà, pero, meritori e redenti nella propria completezza.
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