Il calendario ebraico è composto da date festive e giorni commemorativi che ci trasmettono messaggi utili a vivere da ebrei. Da ciascuna ricorrenza dobbiamo quindi trarre morali ed insegnamenti che ci guidino per tutto l’anno.
Questa settimana siamo entrati in un periodo molto significativo: quello che va dal 17 di Tammùz al 9 di Av, gli “yemè ben hametzarim”. Queste sono tre settimane nelle quali avvertiamo di nuovo la sofferenza dell’esilio che continua oramai da più di 2000 anni. Questo sentimento di sofferenza s'intensifica man mano che ci si avvicina al 9 di Av, il giorno della distruzione del nostro Beit Hamikdàsh, il Tempio di Gerusalemme.
Un principe in esilio
Questo lutto può sembrare strano e fuori dal normale: persone felici che vivono una vita serena si rattristano tutt'un tratto quando giungono queste date per avvenimenti accaduti in un passato remoto...
In realtà questo stato d'animo ci ricorda in quale realtà viviamo. Nei momenti di persecuzione, gli ebrei vivevano ogni giorno nella paura che si scatenasse un pogrom o altre stragi; erano perfettamente consapevoli del fatto che la realtà era quella di un amaro esilio e attendevano impazienti l’arrivo della redenzione. Oggi, nella vita odierna, dove grazie a D-o c’è più benessere materiale e meno persecuzioni, si rischia di farsi ingannare dalle apparenze e credere che vada tutto bene e che non ci sia nessun motivo di lamentarsi. Mashiach? Redenzione? – Si! Perché no? È un bel sogno, ma non è così urgente per continuare a vivere….
Il periodo degli “yemè ben hametzarim” ci riporta nella giusta prospettiva. Proprio nel pieno dell’estate, quando tutto il mondo va in vacanza a godersi la vita, il calendario ebraico ci ricorda che siamo ancora in esilio, amareggiati e addolorati per la distruzione del nostro Beit Hamikdàsh. Per quanto una persona possa essere benestante, in salute, appagata da una bella famiglia - anche con tutto ciò siamo comunque nella diaspora.
La diaspora non è fatta solo di pogrom e persecuzioni, sofferenze e crisi. La diaspora è la condizione che i nostri saggi z"l hanno descritto con le parole: "Poveri figli, che sono stati esiliati dal tavolo del loro padre". Un principe che possiede ogni bene ma non è seduto assieme al re, sentirà sempre che gli manca l'essenziale poiché non si trova con suo padre.
Anche noi ebrei siamo come dei principi; il nostro vero posto è "la tavola del re", cioè il Beit Hamikdàsh dove la presenza di Hashèm è manifesta. Questo è il posto naturale di ogni singolo ebreo, e finché non meritiamo di vedere la costruzione del Beit Hamikdàsh siamo ancora tutti in esilio.
I giorni delle Tre Settimane accendono la vera attesa per Mashiach, non tanto come un sogno irreale ma come un bisogno vitale. È necessario sentire dentro di noi il bisogno di vedere il Santuario ricostruito, come il principe che non vede l'ora di essere seduto di nuovo a tavola con il proprio padre.
Quando però sentiamo il dolore per la mancanza del Beit Hamikdàsh, allo stesso tempo dobbiamo sentire la gioia per la sua costruzione che è oramai imminente. Mashiach oramai è alle porte, com'è scritto: "Colui che è in lutto per Yerushalaim, meriterà di vedere la sua felicità".
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