Le leggi in merito alla Sotà (sospetta), di cui è oggetto la parashà di questa settimana, parlano della moglie sospetta di tradire il marito. Questo, geloso, l’aveva avvertita: «Non appartarti con quell’uomo, non rimanere sola con lui!», ma ella non volle obbedire e si “nascose”, così divenne una Sotà, une donna sospettata.

La legge da mettere in atto è da applicare sia nel caso il sospetto non venga rafforzato da prove concrete, quanto nel caso l’adulterio sia stato veramente consumato e ve ne siano prove certe da parte del marito. L’uomo condurrà la moglie dinanzi al sacerdote, recando un’offerta di farina d’orzo presentata per proposito della moglie. Il sacerdote procede quindi con un rituale atto a suscitare forte emozione sulla donna che non ha la coscienza pura. Rashi, commentando i momenti del rito – quelli in cui il sacerdote pone la donna dinanzi al Signore (5, 18), quello i cui le scapiglia il capo e le pone in mano l’offerta quale ricordanza del peccato – attribuisce loro lo scopo di stancare la donna e di impressionarla al punto da costringerla a confessare, qualora sia colpevole.

Le parole che il sacerdote, dopo aver preparato una bevanda particolare, doveva avere il medesimo scopo: piegare la donna, indurla ad aprirsi e a parlare. Nel breve discorso, il sacerdote le presentava l’acqua amara preparatale in qualità di bevanda e descriveva ciò che le sarebbe accaduto – una volta ingoiato il liquido – qualora fosse stata veramente colpevole. Se la donna non confessava nulla, avrebbe acconsentito a sottoporsi alla prova dell’acqua amara e il sacerdote, dopo aver scritto su un foglio le parole pronunciate e averlo immerso nel liquido affinché l’inchiostro si mischiasse a esso per cancellarne la scrittura, la donna avrebbe bevuto. Il sacerdote, prendendo in mano l’offerta farinacea, l’avrebbe fatta ardere sul fuoco dell’altare.

Se la donna era colpevole l’acqua avrebbe prodotto nel suo corpo gli effetti tragici che il sacerdote le aveva esposto in precedenza – avrebbe reso cadente il suo utero e gonfio il suo ventre – ma se era innocente avrebbe superato immune la prova.

I nostri maestri hanno spesso paragonato le relazioni tra D-o e il popolo ebraico al matrimonio (Liqquté Sichòt III, 984 e note). Quando l’ebreo si unisce con la sposa sotto il baldacchino nuziale pronuncia la frase: «Ecco mi sei santificata». La parola santificata, significa che la sposa non esiste più per gli altri, ma si dedicherà solo al marito.

Il matrimonio che ha unito D-o al popolo ebraico venne celebrato sul monte Sinay; per opera della Torà e delle mitzvòt ci si consacra al Signore come la moglie consacra al marito la sua vita.

Dato che il rapporto tra l’Onnipotente e Israele è paragonato al matrimonio, ne consegue che il concetto di sotà può essere applicato anche a tale rapporto(cf Hayom Yom p 23). La gelosia del Signore e il suo ammonimento di non appartarsi con un altro uomo, si trova nei Dieci Comandamenti: Tu non avrai altri dei al mio cospetto.

Se disobbedirai e ti nasconderai, sarai guardato con sospetto, al pari di una sotà.

È difficile, però, ammettere che ci si possa nascondere alla vista di D-o. A differenza di un marito, di un comune mortale, l’Onnipotente è dovunque. Non c’è alcun luogo privo di lui (Tiquné Zohàr 91b; Tanya II, 7).

Nel versetto di Geremia: “Potrebbe qualcuno nascondersi in qualche nascondiglio senza che Io lo veda” dice il Signore (Geremia 23, 24; cf anche Salmi 139, 7-12), qual è il vero significato di tale nascondersi dell’ebreo di fronte a D-o?

Il Ba’al Shem Tov rispose a questa domanda interpretando così le parole del profeta: «Se un uomo si nasconde il luoghi occulti diventando un “io” (un egoista che non pensa che a se stesso), allora certamente non lo vedrò, dice D-o».

L’Onnipotente non vede la persona arrogante e superba; l’egoismo, lo nasconde dal Signore. La Presenza Divina, infatti, non si può trovare vicino a una persona orgogliosa, poiché è detto: Io e lui non possiamo dimorare nello stesso luogo (Talmud Sotà 5a).