La Voce Illimitata Che Quando si Rivela si Trasforma in Limitazione
Nel versetto finale della parashà Nassò (7, 89) è scritto: “E quando Moshè entrava nella Tenda dell’Adunanza [Hashèm] parlava con lui, [Moshè] udiva la [Sua] voce che parlava a Se stesso dal di sopra del coperchio [posto] sull’arca della testimonianza, fra i due cherubini, e parlava a lui”.
Su questo versetto, Rashi commenta che vi sono due passaggi biblici che si contraddicono a vicenda e il significato è determinato da questo terzo versetto che li riconcilia. Un versetto (Vayikrà 1, 1) afferma: “Hashèm ha chiamato Moshè dalla Tenda dell’Adunanza”, apparentemente la voce si sentiva ben oltre la copertura dell'arca. Un altro versetto (Shemòt 25, 22) afferma: “E Io ti parlerò da sopra il kappòret (la copertura dell'arca) dai due cherubini”. Questi due versetti sembrano essere contraddittori: dal primo risulta che la voce si sentiva in tutta la Tenda, mentre dal secondo si evince che solo dai cherubini si sentiva la voce dell'Eterno. Il versetto di Nassò riconcilia i due, spiegando che quando Moshè entrava nella Tenda dell'Adunanza, lì, udiva la voce che gli parlava da sopra la copertura dell'arca, tra i due cherubini. La Voce si sarebbe emanata dal cielo fino in mezzo ai due cherubini e da lì sarebbe uscita in tutta la Tenda dell’Adunanza.
Questo commento solleva diversi interrogativi: a. Qual è il collegamento tra il modo in cui Dio comunica a Moshè e i versetti precedenti che trattano dei sacrifici offerti dai Principi per l’inaugurazione dell'altare? Dopo aver descritto dettagliatamente questi sacrifici e la somma totale delle offerte, la Torà conclude con il versetto sopra citato (7, 89) che sembrerebbe non avere alcun collegamento con quelle offerte. b. In apparenza, Rashi avrebbe dovuto offrire questa spiegazione in precedenza, in Vayikrà, dove sorge per la prima volta la difficoltà concettuale. In generale, Rashi spiega tutte le difficoltà implicite nella comprensione di un versetto nel punto della Torà in cui si verificano, senza richiedere a uno studente di cercare chiarimenti nei versi successivi. Dal momento che questi sono "due passaggi che si contraddicono", anche se solo in apparenza, Rashi avrebbe dovuto offrire una soluzione quando è sorto il conflitto, senza aspettare fino a Nassò.
Queste difficoltà possono essere risolte da una comprensione più profonda del principio: "Quando ci sono due brani biblici che si contraddicono, la spiegazione è determinata da un terzo versetto che li riconcilia". Ci si potrebbe chiedere, perché la Torà deve insegnare questo concetto in questo modo? Perché l’insegnamento avviene tramite un terzo versetto e non enuncia da subito il concetto chiarificatore e definitivo? Perché crea una contraddizione per poi risolverla successivamente, non sarebbe più sensato citare il concetto in maniera lineare fin da subito nella sua forma completa?
Conciliare le Conoscenze
La Torà dovrebbe essere studiata versetto per versetto, poiché ognuno di essi contiene un'abbondanza di idee. Pertanto, i concetti di ogni versetto dovrebbero essere definiti completamente prima di procedere a quello successivo. Di conseguenza, quando la Torà vuole enfatizzare due estremi di un pensiero, lo fa menzionando per primi i due versetti contrastanti, per poi riconciliarli con un terzo. In aggiunta, questi estremi, i due versetti in conflitto, sono dispersi in tutta la Torà, in modo da dare allo studente il tempo di comprendere e afferrare ciascuno di essi nella sua interezza. Il motivo di tale metodo è che ognuno di questi aspetti antitetici è importante e la risoluzione della problematica, da parte di un terzo versetto, non è finalizzata a dare più importanza a una prospettiva rispetto all'altra. Piuttosto, i due versetti in conflitto sono "riconciliati" al fine di mostrare che, nonostante le apparenze, sono ciascuno parte di un tutto più grande.
Torà Trascendente e Immanente
Questo metodo è applicato anche in relazione ai versetti menzionati sopra. Il primo (Vayikrà 1, 1) sottolinea la natura meravigliosa della voce udita da Moshè e, pertanto, afferma che essa proveniva dal Santo dei Santi, il luogo più sacro esistente e, in particolare, dal luogo più sacro del Santo dei Santi, tra i cherubini sopra l'arca. Quindi, questo versetto insegna come la Torà, rappresentata dalla voce che scendeva dal cielo e che Moshè udiva, trascende completamente l'esistenza mondana.
Il secondo versetto (Shemòt 25, 22) sottolinea il contrario: la propagazione della voce di Hashèm in tutta la Tenda dell’Adunanza, compreso anche il suo ingresso, riflette come la Torà si espande in tutto il mondo materiale e non solo nel Santo dei Santi1.
Successivamente, il terzo versetto unisce i due concetti e spiega che, anche se la parola di Dio, la Torà, si diffonde e penetra in tutto il mondo, passando dalla Tenda dell’Adunanza, essa mantiene comunque il suo massimo livello spirituale, poiché viene evidenziato che la sua fonte originaria è sopra l'Arca tra i cherubini nel Santo dei Santi.
Su questa base, possiamo capire perché il commento chiarificatore di Rashi si trova per intero in questa porzione della Torà, dove viene solo accennato questo concetto, invece che in Terumà dove si trova la principale menzione della rivelazione nella Tenda dell’Adunanza e dove Rashi fa solo un cenno a questo argomento2. Rashi sceglie di spiegare l'intero concetto qui, poiché il nostro versetto menziona sia il concetto che la Voce era in tutta la "Tenda dell’Adunanza" e sia "tra i cherubini" e quindi, solo qui Rashi sottolinea entrambi gli estremi e mostra come possono essere combinati.
La Voce sul Sinày
Rashi prosegue la sua spiegazione del versetto in maniera dettagliata, sottolineando due particolari riguardanti il “parlare” e la “voce” di Hashèm.
1) “Parlava a Se stesso l’espressione riflette l'onore di Hashèm, poiché Moshè ascoltava, mentre Hashèm parlava con Se stesso”.
Questo, sottolinea l'elevata natura spirituale della rivelazione rappresentata da Dio che parla a Se stesso, per così dire, senza limitare affatto la Sua rivelazione. Tuttavia, la finalità di questa rivelazione era solo “per lui”, ossia era indirizzata solo a Moshè. Affermando questo, la Torà vuole sottolineare il fatto che, nonostante la sua elevatissima fonte, (che non si abbassa al livello del mondo e mantiene la sua essenza illimitata, “parlava a Se stesso”), comunque questa rivelazione si autolimita e si manifesta, adattandosi alla realtà materiale, solo a Moshè, tanto che, perfino Aharòn non aveva il privilegio di tale rivelazione.
2) La rivelazione è arrivata attraverso "la Voce". Sempre Rashi commenta:
Possibile che stiamo parlando di una voce bassa, tanto che la voce non usciva fuori dalla Tenda, forse perché era debole? La risposta è che qui la Torà usa l'espressione “la Voce”, “la famosa voce”, intendendo quella potentissima Voce che parlò a Moshè sul Sinày. Comunque, quando la Voce raggiunse l'ingresso, cessò.
Ciò sottolinea e riconcilia due idee contrastanti: da un lato, la Voce era la Voce del monte Sinày, cioè una rivelazione oltre ogni limite; ma contemporaneamente, quella rivelazione si è calata nei limiti del nostro mondo e, quindi, è cessata quando è giunta all'ingresso della Tenda dell'Adunanza, senza proseguire oltre.
Il Valore del Tre
Il concetto di un terzo versetto che risolve un'apparente contraddizione tra due altri versi è intrinsecamente correlato al Dono della Torà che è connesso con il concetto del “tre”. Per tale motivo i nostri saggi, quando descrivono il Dono della Torà, si riferiscono al mese di sivàn (quando cade Shavuòt, che rappresenta il Dono della Torà sul Sinày) come al terzo mese, alla Torà come a una triplice luce e al popolo ebraico come a un triplice popolo.
La spiegazione di questo concetto è la seguente: “uno” si riferisce a uno stato di unità al di sopra del concetto di divisione; “due”, a uno stato in cui esiste divisione; “tre”, rappresenta l'unificazione delle entità precedentemente separate: “uno” e “due”. Questo concetto rappresenta l’essenza del Dono della Torà, poiché prima di questo grandioso evento, vi era una divisione netta tra i regni spirituali superiori e il nostro mondo fisico. Dopo il Dono della Torà, lo spirituale discese nel fisico come è scritto (Shemòt 19, 20): "Hashèm discese sul monte Sinày". In questo modo, Hashèm diede al Suo popolo la possibilità, il potenziale, di elevare il mondo fisico.
Di conseguenza, quando il “terzo” versetto (che rappresenta la terza dimensione sopra spiegata) descrive la rivelazione della Voce nel Santuario – che rappresenta l'unità tra la sfera spirituale e quella fisica stabilita con il Dono della Torà – solo qui la Torà sottolinea che Moshè udì la stessa voce del monte Sinày, poiché essa simboleggia un livello di unità maggiore rappresentato dal “tre”. Perciò, il “terzo” versetto evidenzia anche l'unione degli opposti sopra spiegati: la voce infinita che esce tra i cherubini del Santo dei Santi, ma che riconosce ancora i limiti del nostro mondo e, quindi, cessa all'ingresso della Tenda dell’Adunanza; l’unione degli opposti che è l’essenza del Dono della Torà, la dimensione del “tre”.
L’importanza del Servizio Divino
In questo contesto, possiamo capire perché la Torà menziona questo versetto (7, 89), dopo aver descritto i sacrifici portati dai principi. Questi sacrifici hanno inaugurato il Santuario, ossia lo hanno elevato a un gradino ancora più alto. Questa elevazione ha avuto un effetto sul Santuario nella sua totalità, compresa l'arca e la rivelazione a essa associata. Poiché la rivelazione della Presenza Divina nel Santuario dipende dal servizio del popolo ebraico (Shemòt 25, 8): "Mi farete un Santuario e Io abiterò dentro di loro", l'offerta dei sacrifici da parte dei Principi di tutte le tribù rivela una qualità superiore del Santuario nel suo insieme. Pertanto, solo quando ciascuno dei Principi ha effettivamente offerto i suoi sacrifici, la Torà descrive l'unicità della rivelazione nella Tenda dell’Adunanza nella dimensione del “tre”.
Questo concetto si evidenzia, ancora di più, dal fatto che le offerte dei Principi erano volontarie e non originate da un ordine divino (Moshè ha dovuto fare una richiesta ad Hashèm se poteva accettarle), ciò sottolinea l'aspetto del servizio di Israèl per elevare il mondo: prima vi è l’azione volontaria, come le offerte dei Principi, e poi Hashèm risponde con una rivelazione dall'alto, ossia quella di accettare i loro sacrifici e renderli parte della consacrazione dell'altare. Pertanto, anche a questa fusione di due opposti si riferisce il concetto sul valore del “tre”, sopra descritto.
Il concetto di cui sopra può anche essere correlato al tempo in cui si legge questo brano, poiché come di solito la porzione settimanale di Nassò si legge nello Shabbàt dopo Shavu’òt, il Dono della Torà. Come è noto, Shabbàt eleva tutti i giorni precedenti della settimana, perciò questa dimensione dell’essenza del Dono della Torà ci verrà trasmessa proprio con la parashà di Nassò. Infatti, come la santità della festa di Shavu’òt si estende per 7 giorni di “tashlumìn”, in modo da permettere di recuperare i sacrifici che non si ha avuto il tempo di offrire il primo giorno, allo stesso modo quando si legge la porzione di Nassò, ci troviamo ancora nella santità di Shavu’òt.
Insegnamento Pratico
Quando un ebreo mostra che, nonostante non ci siano più influenze spirituali che lo sostengono, si dedica ancora diligentemente allo studio della Torà e sviluppa nuovi concetti della Torà, realizza concretamente l'effetto della fusione della spiritualità nel mondo materiale che è stato rivelato attraverso il Dono della Torà. In quanto l’ebreo si trova nel contesto del mondo materiale, ma si unisce alla Torà di Hashèm.
Le parole di apertura della porzione di Nassò, che letteralmente significano "alzare la testa", alludono a questo concetto. La testa simboleggia l'aspetto più elevato del corpo umano, come la dimensione elevata di Shavu’òt. Tuttavia, anche la testa deve essere “sollevata” e portata a un livello ancora più alto, ciò implica che una persona deve raggiungere un livello ancora superiore. Quest'ultimo livello è rappresentato dallo Shabbàt di Nassò, che segue il Dono della Torà, poiché esso è associato al servizio divino nel mondo che deve proseguire. Dopo le grandi rivelazioni di Shavu’òt, che sono già molto alte, occorre continuare “alzare la testa”.
Al momento della consegna della Torà, Israèl era in uno stato di completo auto-annullamento. Le loro anime hanno lasciato i loro corpi. Tuttavia, dopo la consegna della Torà, l'enfasi è sul servizio di ogni individuo dentro il corpo per elevarlo e trasformare il mondo materiale. Essendo il suo sé individuale importante (poiché è permeato di santità), ogni persona dovrebbe procedere con questa rinnovata maestà nello studio della Torà in maniera attiva, sviluppando nuovi concetti della Torà.
Dal Macro al Microcosmo
Questo rivela anche una connessione tra l'inizio di Nassò e il suo versetto conclusivo che descrive la rivelazione della voce di Hashèm nel Santuario, come spiegato sopra. In Likuté Torà, l'Alter Rebbe spiega che ogni ebreo ha un Santuario nel microcosmo nel suo cuore. Inoltre, il Tanya spiega che ogni ebreo ha una scintilla dell'anima di Moshè. Pertanto, la rivelazione della voce di Hashèm a Moshè nel Santuario, si riflette nel servizio spirituale interiore di ogni individuo che sente la Voce superiore, la dimensione del “tre”, che unisce l’infinito nella materia. Questo si collega con l’inizio della porzione di Nassò, ovvero l’”elevazione della testa” che è la dimensione di Shavuòt che viene elevata nello Shabbàt successivo, quando si portano queste alte rivelazioni nel mondo e nel corpo senza auto annullamento.
Potremmo non sentire questa voce nel nostro Santuario interiore, coscientemente, ma in realtà essa è presente, perché questa rivelazione ci è trasmessa direttamente dalla parte principale dell’anima che non si riveste nel corpo. Pertanto, essa, non essendo vincolata dai limiti del corpo, percepisce ogni richiamo che poi trasmette alla parte inferiore dell’anima che si trova nel corpo.
Possa tutto quanto sopra portare al momento in cui, accenderemo le candele nel Terzo Tempio, come leggeremo subito dopo Nassò, presto nei nostri giorni.
Adattato da un discorso del Rebbe di Lubavitch da Rav Shlomo Bekhor.
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