“Sole di Ghiv’òn, arrestati!” – disse Yehosh’ùa in piena battaglia.
Yeshoshù’a e i Bené Israèl erano impegnati in una guerra contro la nazione dei ghiv’onìm, che si opponevano al loro ingresso in Eretz Israèl. Perché il popolo ebraico vincesse il conflitto era necessario che la giornata durasse ancora un po’, che il sole non tramontasse e che l’oscurità non calasse sul campo di battaglia in un momento tanto cruciale.
Così Yeshoshù’a intervenne per arrestare il corso del sole, garantendo la vittoria al suo popolo.
Hashèm avrebbe potuto operare un miracolo molto più semplice e palese allo stesso tempo: far sì che il popolo vincesse in quei pochi istanti che rimanevano fino al tramonto. Tuttavia, in questo mondo è spesso necessario che anche i più grandi miracoli siano il risultato degli sforzi dell’uomo e del suo impegno. Gli ebrei avrebbero dovuto combattere in maniera naturale e Hashèm poi sarebbe intervenuto in maniera soprannaturale, interrompendo il corso del sole.
Quel giorno era il 3 tamùz.
Quindici anni orsono, nella stessa data, il sole della nostra generazione ha interrotto momentaneamente il suo corso.
Il Rebbe di Lubavitch, la guida spirituale e materiale della nostra generazione, si è nascosto dalla vista dei suoi chassidim e di Am Israèl, lasciando loro il compito di portare a termine il lavoro da lui intrapreso e portato avanti, nello sforzo continuo di preparare il mondo alla redenzione finale.
Le reazioni, quel giorno, furono le più disparate: molti di noi non volevano credere che il Rebbe ci avesse lasciato così, senza realizzare la sua promessa di portare Mashìach; altri piansero il Rebbe come si piange per la scomparsa di una persona cara; altri non piansero affatto né si ne sentirono la mancanza. Chi non porta sempre l’orologio al polso, talvolta stenta a rendersi conto del tempo che passa. Il tempo diventa quasi una realtà soggettiva. Eppure il sole si è arrestato.
Noi tuttavia non ci lasciamo scoraggiare.
Qualunque siano state le intenzioni di Hashèm quel giorno – hanistaròt laHshèm Elokenu – ciascuno di noi può rendersi conto che l’attuale situazione del popolo ebraico è alquanto anomala e richiede un intervento tempestivo da parte di tutti.
Dai tempi di Moshè Rabbenu il popolo ebraico non è mai rimasto neppure un giorno senza guida.
Sorge il sole, tramonta il sole, disse re Shlomò. Prima ancora che un sole tramonti ne sorge un altro, per non lasciare mai Am Israèl senza un capo che lo guidi e gli illumini il cammino.
Anche oggi il sole della nostra generazione ci accompagna passo dopo passo. C’è chi lo vede nella vita di tutti i giorni, chi lo vede nelle chiare risposte alle lettere inserite nelle Igrot Kodesh e c’è chi non lo vede.
Ma il Rebbe è ancora con noi, dentro il cuore di ciascuno di noi.
Tzadik deitapattàr ishtakkach bechullehu almin yatir mibechayohi, insegna lo Zohar.
Lo tzaddìk che scompare si trova in questo mondo più di quando non lo fosse quando era in vita.
Se prima era comunque vincolato dal corpo materiale, dopo la sua scomparsa egli è più “libero” che mai. Libero di agire, libero di aiutare, di spingere e di incoraggiare, pur non lasciandosi vedere.
Yaakov Avinu pianse per ventidue anni la scomparsa del figlio Yossèf perché, insegnano i saggi, questi non era morto. Se fosse stato morto, il padre lo avrebbe dimenticato e il dolore si sarebbe alleviato, come succede per natura.
Sono diciassette anni che molti di noi si rifiutano di accettare la scomparsa del Rebbe come una realtà in apparenza priva di significato. Il Rebbe è ancora vivo nel cuore dei suoi figli, che lo hanno amato e lo amano tutt’ora, non meno di prima.
Diciassette anni in cui l’impero dei shlichìm, gli emissari inviati in tutto il mondo per diffondere la Torà e l’ebraismo, si è espanso in maniera vertiginosa, raggiungendo vertici inimmaginabili a livello qualitativo, oltre che quantitativo.
Nuove scuole, nuove istituzioni e nuovi baté chabad si affiancano a quelli già esistenti, provando che il sole splende ancora e con intensità forse ancora maggiore.
Che ciascuno di noi tragga le proprie conclusioni da questi fatti.
La mia è solo una piccola riflessione a riguardo, scritta così, su due piedi, in un giorno che per me è una specie di Yom Kippùr.
Senza penare fisicamente digiunando o astenendomi da qualunque cosa, mi sento comunque in dovere, in un giorno tanto particolare, di fare un piccolo esame di coscienza chiedendomi in che cosa sono cambiata in questo ultimo anno, in che cosa sono migliorata e che cosa ho fatto per avvicinare la gheulà – perlomeno in segno di riconoscimento al Rebbe che ha tanto fatto per me e per tutto il mio popolo, chiedendomi in cambio “soltanto” di rendere il mondo un posto migliore.
Un poco più di tzedakà, di tfilà, di buone azioni, di tehillìm, di meditazione sincera, di tempo trascorso con i bambini e soprattutto un piccolo nuovo impegno da parte mia – questo è ciò che farà di questa giornata un piccolo Yom Kippùr.
Senza colpirmi il petto (ogni cosa a suo tempo), chiederò ad Hashèm di volgere la Sua attenzione a quello che Am Israèl sta facendo di buono e semplicemente di mandare presto Mashiach, perché sicuramente da qualche parte ce lo meritiamo!
A tra poco, a Yerushalayim!
Di Avigail Hadad Dadon
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