La parashà di Behàr Sinài propone un sistema rivoluzionario di giustizia sociale, libertà e dignità umana che comporta anche l’emancipazione degli schiavi: “Se tuo fratello s’impoverisce e viene venduto a te, non lo assoggetterai come schiavo. Sarà per te come un dipendente o uno che abita con te… fino all’anno del Giubileo lavorerà con te. E andrà via da te, lui e i suoi figli con lui, e tornerà dalla sua famiglia, e al retaggio dei suoi avi tornerà. Poiché essi sono i Miei servi, che ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, non saranno venduti a guisa di schiavi. Non li assoggetterai ai lavori forzati e temerai il tuo D-o… Poiché i Figli D’Israele sono Miei servi, sono i Miei servi che ho fatto uscire dalla terra d’Egitto – Io sono il Sign-re tuo D-o. (Levitico 25: 39-43, 55)

Politica del Lavoro

Il concetto è chiaro: la schiavitù non è ammessa, è un insulto alla condizione umana. Essere a immagine di D-o significa essere chiamati a una vita in libertà. L’idea stessa della sovranità di D-o implica che solo Lui può assoggettare gli uomini: chi serve D-o non può servire nessun altro. Non è un caso che il Popolo d’Israele sia nato, in quanto popolo, in condizioni di schiavitù, e il fatto che D-o sia intervenuto per liberare degli schiavi, ossia che la divinità fosse dalla parte dei deboli, era un’assoluta novità nel mondo antico. Questo doveva fungere da monito eterno della necessità morale della libertà. Il D-o libero desidera la libera venerazione di esseri umani liberi. La Torà però non abolisce la schiavitù; la parashà di Behàr limita e regolarizza la schiavitù, e la rende più umana, ma non la elimina. Ogni sette anni gli schiavi dovevano essere liberati, se però sceglievano altrimenti, restavano assoggettati fino all’anno del Giubileo. Durante questi anni dovevano essere trattati come dei lavoratori alle dipendenze del padrone, non dovevano essere sottoposti a lavori duri per il fisico o per lo spirito; qualsiasi atto non umano era vietato. La forma di schiavismo descritta nella nostra parashà (schiavitù per povertà), corrisponde quindi al concetto odierno di politica del lavoro, ossia di benefici in cambio di lavoro. Perché allora non abolire del tutto la schiavitù? Perché la Torà ha permesso la sopravvivenza di un’istituzione fondamentalmente distorta fino al IX secolo?

Per Libera Scelta

Nella Guida ai Perplessi, Maimonide spiega che ogni processo in natura è graduale. Il feto si sviluppa gradualmente; fase dopo fase, il bambino diventa maturo. La stessa cosa vale per i popoli e le civiltà: non si può passare improvvisamente da un estremo all’altro e l’uomo non può abbandonare di colpo un’abitudine radicata. Per questo D-o non ha ingiunto agli ebrei di abbandonare da un momento all’altro tutto quello a cui erano stati abituati in Egitto e non ha prescritto loro quello che, per inclinazione naturale, non sarebbero stati in grado di osservare. L’Onnipotente però potrebbe anche cambiare istantaneamente la natura umana, se lo decidesse: perché non ha trasformato l’indole degli Israeliti, rendendoli immediatamente capaci delle virtù più elevate, tra cui l’abbandono totale dello schiavismo?

La risposta di Maimonide è semplice: non era Sua volontà, e non lo sarà mai, poiché se lo fosse, la missione dei profeti e il Dono stesso della Torà sarebbero superflui. D-o cambia la natura, ad esempio nei miracoli, ma non la natura dell’uomo, poiché altrimenti l’intera Torà sarebbe vuota e nulla. La grandezza di D-o consiste nel rischio di creare un essere dotato di intelletto e libero arbitrio, in grado di operare scelte responsabili, e di scegliere liberamente di obbedire D-o; non ci sarebbe nulla di altrettanto grandioso nel programmare milioni di “computer” ad eseguire le Sue istruzioni.

Così, D-o voleva che gli uomini abolissero la schiavitù, da cui nell’antichità dipendeva l’intera economia, ma per loro iniziativa, e questo richiede tempo. Come riuscirci? La Torà offre la risposta: trasformare la schiavitù da una condizione esistenziale, ontologica (cosa sono io?) a una circostanza temporanea. A nessun israelita era permesso essere o considerare se stesso uno schiavo; una persona poteva trovarsi in condizioni di assoggettamento regolamentato per un certo periodo di tempo, ma non era la sua identità.

L’intero complesso della legislazione biblica è articolato in maniera tale da garantire che né il servo né il suo padrone potessero mai considerare lo schiavismo come una condizione permanente. Uno schiavo doveva essere trattato come un dipendente o uno che abita con te, con il rispetto dovuto a un essere umano. In questo modo la Torà ha posto le condizioni affinché lo schiavismo fosse abolito, anche se non nel giro di una notte. E così fu.