“E indurirono la loro esistenza con lavori pesanti, con il mortaio e mattoni e con ogni genere di lavori nei campi ; ogni lavoro a cui erano sottoposti era opprimente (Esodo 1 :14)”.

L’espressione “avodat parech - fatica improba” appare spesso nei testi in cui si riportano le vicisstudini del popolo ebraico in Egitto. Maimonide la definisce “ lavoro che non ha nè inizio ne fine”, demoralizzante quindi, in quanto si ignora la ragione per la quale perchè ci si adopra tanto.

Lo scopo degli oppressori era appunto di indebolire moralmente gli israeliti, rifiutando di fornir loro spiegazioni logiche sulle loro fatiche. Anche oggi si può definire tale il lavoro nel mondo moderno. Millioni di individui si sottomettono volontariamente a progetti che non hanno nè capo nè coda: ore supplementari che invadono il nostro spazio privato, convincendoci che stiamo facendo carriera allorchè in realtà siamo schiavizzati dalla ditta che ci assume per il proprio tornaconto.

“Tutti i maschi che nasceranno li butterete al fiume”: Questo versetto cela un senso ancora più perverso di quanto lo sia a prima vista. Il Nilo che irrigava i campi di un Egitto diventato arido era la sua unica fonte economica, dunque il suo dio più venerato. Buttare il proprio figlio nel Nilo, nella dimensione spirituale, significa farlo immergere in una cultura che divinizza il carrierismo, che idolatra una fisicità fine a se stessa.

Vite senza fine: L’Io fisico è pragmatico per definizione. Quale può essere la fonte della sua perseveranza nell’inseguimento infinito e mai raggiunto del successo sociale? Una tale proprompente energia puo’ attingere ad un’unica fonte : la Scintilla Divina che è l’essenza dell’Uomo. Solo l’anima che aspira all’infinità è in grado di manifestare tanto vigore in un’attività “senza inizio nè fine” dacchè il suo unico obiettivo è di servire il Creatore. L’anima è quindi imprigionata in un Galut sheBagalut-un esilio nell’esilio : non solo è incatenata dall’Io fisico ma, più di ogni altra cosa, soffre dell’usurpazione delle forze appartenenti alla sua essenza profonda che vengono strumentalizzate solo per mere soddisfazioni fisiche.

La disciplina della libertà: Il cammino per uscire dall’Egitto passa per il Sinai. La Torà regola l’atteggiamento dell’uomo nel suo passaggio terreno. Essa ci spiega che al settimo giorno della settimana dobbiamo smettere di lavorare e sopratutto considerare “ogni lavoro finito”. E’ nostro compito costruire roccaforti invalicabili che ospitino tempo da dedicare alla preghiera e allo studio. Essa ci ingiunge, inoltre, di “mangiare (il frutto) dell’opera delle tue mani” cioè di coinvolgere solo le nostre facoltà fisiche per il nostro sostentamento e, pertanto, di riservare i nostri talenti più raffinati al raggiungimento di elevati livelli spirituali. La Torà insiste sul fatto che la materialità non è il fine. Essa è il mezzo per trasformarci in degni ricettacoli per le benedizioni divine.

Limitando le aspirazioni materiali, la Torà libera la nostra anima dall’esilio corporale per poter permetterle di seguire il suo percorso naturale: servire Hashem “senza limite nè scopo”, nella connotazione positiva dell’espressione. Il servizio divino trascende i parametri dell’Io, dell’egocentrismo e della nozione, spesso fuorviata, che abbiamo dell’impegno nei confronti del Sig-re.