Esiste una contraddizione intrinseca nella nostra esistenza. Da un lato, ci teniamo lontani dalle sfide, per il rischio di fallire – altrimenti non sarebbero sfide. Dall’altro, le andiamo a cercare, poiché affrontarle ci spinge oltre la monotonia dell’esperienza ordinaria.

Analogamente, D-o non vuole che il nostro servizio verso Lui sia semplice routine, e così ci presenta delle sfide. Alcune richiedono uno sforzo moderato, altre sono più impegnative, portandoci ad attingere dalle nostre risorse più profonde.

Questa è anche la natura della sfida per eccellenza dei nostri tempi: l’esilio. Durante l’epoca del Bet Hamikdàsh, la rivelazione aperta e manifesta di D-o era fonte di ispirazione per gli ebrei, portandoli a servire D-o con i sentimenti più elevati e gli intenti più nobili. Durante l’esilio, la Divinità è nascosta e siamo confrontati con i più disparati ostacoli all’osservanza della Torà e delle mitzvòt. Possiamo contare solo sul nostro sforzo per raffinare i nostri sentimenti per D-o, ma è proprio in questo modo che l’esilio risveglia le nostre risorse spirituali profonde e rafforza il nostro legame con D-o.

L’Esilio

Questi concetti sono espressi nella parashà di Shemòt, la prima del Libro dell’Esodo, che descrive la continua discesa che il popolo ebraico subì in Egitto, fino a sprofondare negli abissi della schiavitù. Subito dopo la morte dell’ultimo dei figli di Ya’akòv (Giacobbe), i suoi discendenti dovettero affrontare i lavori forzati, il decreto di uccisione di tutti i bambini maschi ed ulteriori crudeltà. Dopo che Moshè riferì la promessa della redenzione da parte del Sign-re, l’oppressione s’inasprì ulteriormente. La Torà riporta anche del grido degli ebrei che “risvegliò” l’attenzione dell’Onnipotente, a cui Egli rispose trasmettendo la promessa della redenzione e la garanzia che, una volta liberati dall’Egitto, avrebbero servito D-o.

Nel nostro esilio attuale, gli ebrei vivono sparsi in tutti gli angoli della Terra e sono messi a contatto con culture diverse; queste prove ci portano ad un legame più profondo con D-o elevando l’ambiente in cui viviamo, poiché le mitzvòt che applichiamo rendono manifesta la Divinità che permea il mondo. D-o desiderava che raggiungessimo livelli più alti nel servirLo, e così ha strutturato le sfide dell’esilio (dotandoci della capacità di superarle), per portarci a manifestare il nostro potenziale spirituale più profondo.

A questo allude la Torà quando nomina le tribù all’inizio della parashà, e i Maestri spiegano che, il fatto che ne vengono ripetuti i nomi dopo essere già stati menzionati alla fine della parashà precedente, dimostra quanto il Suo popolo Gli sia caro. È scritto nello Shulchàn Arùch (codice di leggi) che “un’entità importante non può mai essere annullata”; di conseguenza, se i figli d’Israele sono così importanti per D-o da nominarli uno per uno, essi non potranno essere annientati, nemmeno durante l’esilio. La Torà riporta il nome di ogni singola tribù, poiché ciascuna rappresenta un approccio diverso al servizio verso D-o e, in questo modo, viene valorizzato ogni apporto individuale, conferendo la forza di sopportare l’esilio e crescere da questa esperienza.

Un Nome

La parola “shemòt” in ebraico significa “nomi”. Un nome è composto da due dimensioni: da un lato rappresenta l’aspetto esteriore dell’esistenza della persona,e infatti è necessario solo nelle relazioni con gli altri, e dall’altro, come scrive l’Alter Rebbe nel Tànya, esso rappresenta la natura più profonda dell’entità che lo porta e la sua forza vitale. Fino a che è rivelato solo l’aspetto esteriore del nome degli ebrei, essi sono in balia delle forze terrene, da cui possono essere soggiogati; quando però si manifesta l’essenza del loro nome, Israèl, non esiste più nessun potenziale per l’esilio, poiché Israèl significa “Hai lottato con D-o e con gli uomini e hai prevalso” (Genesi 32:29). L’esilio non rappresenta un mutamento nell’essenza del nostro rapporto con D-o e la redenzione non comporta la creazione di nulla di nuovo, bensì la rivelazione di un potenziale che già esiste. È necessario solo chiamare un ebreo col suo nome, Israèl, e dargli così l’opportunità di rivelare chi è. Siccome la natura di un ebreo è “desiderare di compiere i precetti e allontanarsi dal peccato” (Rambàm, Hilchòt Gherushìn 2:20), egli risponderà al suo nome esprimendo questa sua essenza e rendendo tutta l’umanità partecipe dell’esperienza sublime della Redenzione ad opera di Mashìach.

Adattato da “In The Garden Of The Torah” di Eli Touger, per concessione di Sichos in English