Batia, la figlia di Faraone, era andata a passeggiare lungo la riva del Nilo. Là notò in un canneto una cesta, dentro la quale era stato posto il piccolo Moshé. Ella stese la mano per trarre a sé la cesta, ma la sua mano era troppo corta. Allora avvenne un miracolo: la sua mano si allungò. Quando si vuole raggiungere una meta lontana, non ci si deve scoraggiare per la mancanza di mezzi: l’importante è avere la ferma volontà di raggiungere la meta.

Alla principessa avvenne anche un altro miracolo. Ella aveva su tutto il corpo un brutto eczema che la faceva soffrire molto. L’arte dei medici egizi non aveva avuto successo, ma non appena ebbe toccato la cesta l’eczema scomparve ed ella guarì. Da questo la giovane riconobbe la forza risanatrice e redentrice del bambino che giaceva in quella cesta.

Batia portò il lattante alla reggia, dove venne allevato.

Moshé poteva avere circa tre anni, quando un giorno, in grembo alla sua regale benefattrice, la figlia di Faraone, in presenza della corte radunata, afferrò la corona del re e se la pose sul capo.

Il sovrano rimase esterrefatto dall’ardire senza precedenti del bimbo e si consultò subito con i suoi saggi e i ministri per decidere se quel gesto fosse da considerare semplicemente un gioco infantile o un cattivo presagio.

Alcuni consiglieri dissero: “Noi temiamo che costui sia l’uomo di cui da tempo ti abbiamo predetto che aspira alla tua corona”.

Altri dissero: “Bisogna ucciderlo con la spada o sul rogo”.

Allora prese la parola Yitrò, uno dei saggi, e disse: “Sign-re e re? Per arrivare alla certezza si pongano a un lato del bambino delle splendide gemme e dall’altro carboni accesi. Se nel suo gioco c’è solo ingenuità infantile egli, come fanno i bambini, afferrerà piuttosto il fuoco e non toccherà le pietre preziose”.

Questo consiglio piacque a tutti e venne immediatamente messo in atto. Ma ecco? Il vivace bambino stava per allungare la sua manina verso le gemme decidendo così la sua sorte, quando un angelo – alcuni dicono che fu Gabriele – la guidò verso i carboni ardenti. Il bambino afferrò un pezzo di carbone, ma per uno spasmo di dolore, portò poi la mano in bocca e bruciò – con le faville che gli erano rimaste in mano – la sua lingua e le sue labbra. Moshé fu salvo, ma finché visse la sua favella difficoltosa e balbuziente ricordò quell’intervento della Divina Provvidenza (Shemot Rabba, 31).