La parashà di Emòr comincia con una restrizione per le persone attraverso cui un kohèn può diventare ritualmente impuro. Un sacerdote non può toccare né stare sotto lo stesso tetto di un cadavere; deve evitare il contatto ravvicinato con il morto ad eccezione di un parente vicino. Le norme per il gran sacerdote sono ancora più rigide, poiché non può diventare impuro nemmeno per un parente vicino. Questa categoria di norme è difficile da capire ai nostri giorni, e non erano così semplici nemmeno ai tempi dei Saggi; la malattia che nella Torà è chiamata “tzaraàt”, che può colpire non solo la persona ma anche i suoi vestiti e la sua casa, non corrisponde a nessuna condizione medica conosciuta ai nostri tempi. La parashà continua poi con l’esclusione dal servizio nel Santuario di un kohèn che abbia un difetto fisico: nel caso sia cieco o zoppo, o abbia un naso deforme e così via… Questo non sembra contraddire il principio per cui “D-o non fa caso a quello a cui le persone fanno caso. Le persone guardano l’apparenza esteriore ma D-o scruta nel cuore” ( I Samuele 16:7)?

Il Sacro

Tutti questi decreti in realtà hanno una loro logica, che risiede nel concetto di “santo”. D-o è al di là dello spazio e del tempo, ma ha creato spazio e tempo e le entità fisiche che li occupano. In questo contesto fisico D-o è nascosto (la parola in ebraico “olàm” – “mondo” ha la stessa radice di “neelàm” – “nascosto”). Però, se l’Onnipotente fosse rimasto completamente e permanentemente nascosto dal mondo fisico, ne sarebbe stato anche completamente assente. Da un punto di vista umano, non ci sarebbe nessuna differenza tra un D-o non conoscibile e un D-o inesistente. Per questo motivo D-o stabilì il concetto di “santo” come punto in cui Egli entra nella dimensione del tempo e dello spazio: lo Shabbàt rappresenta il tempo sacro e il Tabernacolo prima e successivamente il Tempio rappresentano lo spazio sacro. L’eternità di D-o si trova in contrasto con la nostra mortalità, e il Tempio diventa allora qualcosa di molto delicato, il punto in cui Ciò che è al di là dello spazio e del tempo entra in essi. Come il più delicato esperimento deve essere condotto lontano da qualsiasi contaminazione, così lo spazio sacro deve essere tenuto lontano da condizioni di mortalità.

Mortalità ed Eternità

Ecco allora che l’impurità non ha tanto a che fare con il concetto di contaminazione nel senso di sporcizia o peccaminosità; ha più a che fare con il concetto di mortalità. La morte e anche la nascita stessa sono legate alla mortalità; la malattia della tzaraàt ci rende chiaramente consapevoli del nostro corpo, ma anche un arto malforme (D-o non voglia); la muffa nel muro è un sintomo di decadenza materiale. Non c’è niente di male in queste condizioni fisiche, ma dirigono la nostra attenzione sulla sfera fisica e sono quindi incompatibili con la presenza del Non-Fisico. Quando il nostro corpo soffre o è colpito da qualcosa, può diventare estremamente arduo se non impossibile concentrarsi sulla spiritualità. Qui non entrano in gioco la verità o la sostanzialità ma entra in gioco la mente dell’uomo; come dice Maimonide, “Non ci si può dedicare alla meditazione quando si ha fame o sete, quando non si ha una casa in cui dormire o si è malati” (Guida ai Perplessi 3:27). Impurità significa “ciò che distoglie dall’eternità e dall’infinità forzandoci ad essere consapevoli dell’immortalità o del fatto che siamo entità fisiche in un mondo fisico”. Lo Shabbàt e il Santuario rappresentano il fatto che nell’ebraismo la santità esiste dentro questo mondo fisico, nonostante i suoi limiti di spazio e di tempo. La santità però deve essere isolata con cura, e da qui hanno origine i divieti dei lavori del Sabato e le restrizioni per i sacerdoti. Il sacro è un accenno di eternità nel mezzo della vita mortale, che ci permette di sentirci parte di qualcosa che non muore; è lo spazio in cui redimiamo la nostra esistenza dalla mera contingenza nella consapevolezza che siamo tenuti tra le braccia eterne di D-o.