Ci fu un tempo in cui i paragrafi dello Shemà erano quattro, e non tre come recitiamo oggi: la Mishnà ci informa che ai tempi del Santuario di Gerusalemme i sacerdoti officianti recitavano i Dieci Comandamenti e poi i tre brani dello Shemà (Tamìd 5:1). In epoche successive sono state trovate ulteriori prove di questa usanza. Nel Talmùd Babilonese e nel Talmùd Yerushalmi è scritto che alcune comunità in Israele volevano introdurre i Dieci Comandamenti nelle preghiere e i Rabbini dell’epoca stabilirono di no. Perché da un certo punto in poi i Maestri si opposero a questa usanza?

I Settari

Il Talmùd risponde che era a causa dei “settari”. Gli ebrei settari (la cui identificazione non è chiara) sostenevano che sono vincolanti solo i Dieci Comandamenti, poiché sono gli unici precetti che gli ebrei ricevettero direttamente da D-o al Monte Sinai (gli altri furono ricevuti da Moshè che li trasmise a sua volta al popolo). Questi settari sostenevano che tutte le altre mitzvòt sono un’invenzione di Moshè, come, secondo il MIdràsh, il ribelle Kòrach esclamò: “Tutta la congregazione è santa. Forse voi (Aharòn e Moshè N.d.T.) siete gli unici santi? Fummo tutti santificati al Sinai… e quando furono dati i Dieci Comandamenti non furono menzionate la miztvà della challà o della terumà o delle decime o degli tzitzìt; le avete fabbricate voi”. I Maestri quindi si opponevano a qualsiasi usanza che avrebbe dato preminenza ai Dieci Comandamenti poiché avrebbe rafforzato la tesi dei settari. I Dieci Comandamenti però fecero un’altra volta capolino da un’altra direzione. Rabbi Yacov ben Asher, autore del Tur (XIV secolo), sostiene che bisogna recitarli in privato e anche Rabbi Yosef Caro dice che il divieto dei Maestri si applica solo al fatto di recitarli in pubblico durante la preghiera, ma possono essere recitati dopo in privato. Infatti, in molti siddurìm sono tutt’ora riportati subito dopo la preghiera. Rabbi Shlomo Luria seguiva l’usanza opposta, ossia recitarli subito all’inizio della preghiera del mattino. La questione rimane anche ai nostri tempi: stabilito che non si recitano durante la preghiera pubblica, bisogna comunque mostrare particolare onore e rispetto quando vengono letti dalla Torà nelle parashòt di Yitrò e Vaetchanàn, ad esempio alzandosi in piedi? Il quesito fu posto a Maimonide, che rispose che non bisogna alzarsi, per lo stesso motivo per il quale non bisogna includerli nelle preghiere: tutte le mitzvòt hanno uguale importanza e non bisogna dare speciale prominenza ai Dieci Comandamenti. In molte comunità però fu difficile convincere il pubblico a stare seduto e così, nella maggior parte delle comunità, come ai nostri tempi, il pubblico si alza in piedi durante la lettura dei Dieci Comandamenti.

Rievocare Il Patto

Gli ebrei hanno sempre avuto una passione per i Dieci Comandamenti, l’essenza distillata dell’ebraismo. Sentiti direttamente da D-o (per lo meno i primi due), la base del patto al Monte Sinai con cui diventarono un regno di sacerdoti e un popolo santo; due volte nella Torà sono descritti come il patto stesso, nell’Esodo (34:27-28) e nel Deuteronomio (4:12-13). Leggerli significa rinnovare il patto, e lo stare in piedi evoca il fatto che gli ebrei stettero in piedi quando li sentirono al Sinai (Esodo 19:17). Riguardo alla lettura dei Dieci Comandamenti a Shavuòt il Midràsh dice: Il Santo, Benedetto Egli sia, disse ai figli d’Israele: “Figli miei, leggete questo passo ogni anno, e io considererò come se voi fosse stati in piedi davanti al Monte Sinai per ricevere la Torà”. Gli ebrei vogliono trovare un modo per riprodurre quel momento stando in piedi durante la lettura dei Dieci Comandamenti dalla Torà e recitandoli in privato. L’onore riservato ai Dieci Comandamenti è l’usanza che si rifiuta di scomparire.

Di Rabbi Jonathan Sacks, chabad.org