“E Israele si installò in terra d’Egitto, nel paese di Gòshen; ne presero possesso e si accrebbero e si moltiplicarono (Genesi 47:27).” Così la Torà descrive l’inizio del primo esilio del popolo ebraico quando Ya’acòv, figli e nipotini lasciarono la terra Santa per l’Egitto.

Il verbo ‘vayeachazu’ tradotto qui sopra con 'ne presero possesso', può anche tradursi con ‘ne furono posseduti’. Esso deriva dalla radice achuzà che significa ‘proprietà terrena’. Il Midràsh afferma “a terra li teneva e se ne impadronì come un

uomo che è trattenuto con la forza”, ovvero, vi vissero in detenzione. Un paradosso analogo abitava Ya’acòv: da un lato i diciassette anni trascorsi in Egitto sono considerati come i migliori anni della sua vita; da un altro egli è una merkavà, un carro, un veicolo di cui ogni pezzo è destinato all’esclusiva realizzazione della volontà divina. Tuttavia le due asserzioni non convergono: perché una merkavà dovrebbe sentirsi obbligata? Non agirebbe in modo automatico ed istintivo? Sì, ma proprio perché Ya’acòv era sottomesso al volere di Hashèm che si sentì obbligato a lasciare la sua terra.

Un dualismo voluto da D-o

Questo dualismo è il disegno del Sig-re: un coinvolgimento totale nella mansione di far evolvere l’ambiente che ci circonda durante l’allontanamento dalla patria e, al contempo, un forte desiderio di uscirne, dacchè un perfetto servizio divino è possibile solo in Terra Santa, solo con il Tempio eretto su di essa e costruito nel nostro cuore. L’esilio è un carcere, quand’anche accogliente e gradevole; esso ostruisce la nostra vista spirituale e può compromettere la nostra relazione con D-o. Tuttavia, esso è essenziale a diffondere la parola divina fra i popoli ed a illuminare il mondo tramite il nostro atteggiamento probo e puro inculcatoci direttamente da Hashèm.

Due approcci contrastanti

L’espatrio, quindi, è un’achuzà nei due sensi della parola: un proprietà terrena da rendere fruttuosa e una gabbia dalla quale dobbiamo cercare di evadere. E non potrebbe essere altro che le due cose contemporaneamente poiché se non lo considerassimo una prigione non tenteremmo di sfruttarne al massimo le opportunità che ci permetterebbero di soggiornarvi in buone condizioni. Ma è importante non affezionarci troppo al luogo che ci ospita, non renderlo troppo confortevole altrimenti rischieremmo di farne parte integrante e, di conseguenza, di non voler mai lasciarlo. Pertanto, quando Ya’acòv condusse i settanta membri della sua famiglia, lo fece come se fosse ‘obbligato dal comandamento divino’.

Quale merkavà, egli non aveva altra aspirazione che la concretizzazione della volontà divina. Ciònonostante, egli era consapevole che il desiderio di espatriarsi avrebbe alterato lo scopo della sua missione; sapeva che il segreto della sopravvivenza del popolo in esilio risiedeva nel rifiuto diaccettare l’allontanamento come una normalità. Egli sapeva che colui che è conscio della sua situazione provvisoria e instabile al di fuori di Israele, riuscirà a prevalere sull’esilio e a farne una sua proprietà terrena dalla quale potrà ricavarne un magnifico raccolto spirituale.

(Likkutè Sichòt)