L’ebraismo ci incoraggia a ragionare con la nostra testa e a porre domande. Non siamo tenuti ad accettare ciecamente tutto ma, al contrario, esplorare, analizzare, dibattere e trarre conclusioni. Vero o falso?

Due Nomi

Yosèf (Giuseppe) chiamò il suo figlio primogenito Menashè, poiché “Nashàni Elokìm – D-o mi ha fatto dimenticare tutte le difficoltà e la casa di mio padre” (fu venduto dai fratelli come schiavo e in Egitto fu messo in prigione – N.d.T.), e il secondo figlio Efràim, poiché “Hifràni Elokìm – D-o mi ha fatto prosperare nella terra della mia sofferenza” (fu liberato e divenne vicerè – N.d.T.) (Genesi 41:51-52).

I nostri Maestri approfondiscono il significato dei due nomi interpretandoli nel seguente modo: “Nashàni Elokìm – D-o mi ha fatto dimenticare tutta la Torà che ho studiato nella casa di mio padre”; “Hifràni Elokìm – D-o mi ha fatto prosperare restituendomi la conoscenza della Torà, nella terra della mia sofferenza”. L’interpretazione del primo nome sembra azzardata: come poteva Yosèf essere riconoscente per aver dimenticato la Torà, per aver faticato ad acquisire il sapere e poi averlo perso?!

Lo Spirito Critico

Il momento di maggior soddisfazione per un maestro è quello in cui il suo allievo pone una domanda e chiede una spiegazione più approfondita. Ci sono anche insegnanti che abituano gli studenti a verificare con estrema attenzione tutte le teorie che vengono loro esposte per non essere tratti in errore. Allo stesso modo, Yosèf desiderava imparare come studiare, analizzare e comprendere i precetti della Torà. Non voleva limitarsi ad apprenderli solo perché gli erano stati trasmessi; voleva passare al vaglio ciascun elemento di ogni singola informazione e stabilirne in maniera oggettiva l’autenticità. Suo padre Ya’akòv (Giacobbe) era il Maestro di Torà per eccellenza, Giuseppe considerava i suoi insegnamenti fondati a priori e non poteva valutarli con obiettività. Egli allora pregò affinché gli fosse concesso di dimenticare quanto appreso e ricominciare da capo. Solo dopo, poteva dedicarsi all’analisi e alla verifica di tutte le prescrizioni. Una volta riuscito nel suo intento, ne fu estasiato. Col nome “Efràim” egli espresse la sua gratitudine per la conoscenza ritrovata, ad un livello ancora più profondo. La sofferenza a cui si allude nella spiegazione del nome è data dalla fase in cui Yosèf era intento a recuperare e verificare tutte le sue conoscenze: egli fu in ansia fino a che non riuscì con successo nella sua impresa. (Immaginiamoci la sua sofferenza se, dopo aver dimenticato tutto il suo sapere, non fosse più riuscito a recuperarlo!).

La Scelta di Ya’akòv

Tempo dopo, quando Yosèf chiese al padre di benedire i suoi figli, Ya’akòv benedì prima Efràim e poi Menashè, in ordine diverso a quello di nascita. Egli spiegò che i discendenti di Efràim avrebbero superato quelli di Menashé e i Maestri insegnano che Giacobbe alludeva a Yehoshùa (Giosué), discendente appunto di Efràim. Yehoshùa era un eminente erudito, acclamato come il più grande pensatore del suo tempo. Fu la guida del popolo, profeta, e D-o operò miracoli per mano sua. Eppure la Torà lo descrive come l’umile e discreto discepolo di Moshè; beveva ogni parola del suo maestro e ne abbracciava senza riserva tutti gli insegnamenti.

Giacobbe preferiva l’accettazione umile di Yehoshùa al pensiero oggettivo di Menashè. Sicuramente Yehoshùa analizzava e discuteva ogni cognizione, ma la ragione ultima dell’accettazione delle dottrine non era la comprensione del suo intelletto ma il fatto che era stato Moshè a trasmetterle.

Prima che D-o desse la Torà sul Sinai, ne aveva concesso la saggezza ai nostri patriarchi e, a quell’epoca, l’approccio critico di Yosèf era corretto. Quando però D-o consegnò la Torà a tutto Israele, egli donò anche l’aspetto Divino contenuto in essa e questo richiedeva un nuovo approccio, ossia quello dell’accettazione della verità di D-o.

L’Ebraismo, allora, incoraggia o meno la riflessione critica? La risposta è assolutamente . Il pensiero critico è quello che conduce alla saggezza ma, da solo, non è sufficiente, poiché a partire dalla Rivelazione sul Monte Sinai la Torà non è solo un’opera saggia: è un libro Divino. E la Divinità si riceve con l’umiltà e l’accettazione. Lo studio della Torà è un viaggio di ricerca intellettuale e spirituale. I quesiti e la riflessione critica sono i segnali che ci indicano la direzione; l’umiltà e l’accettazione ci permettono di arrivare a destinazione.

Di Lazer Gurkow, per concessione di fr.chabad.org