Questa parashà contiene una particolarità che troviamo solo un'altra volta in tutto il Pentateuco. I versetti 35 e 36 del capitolo 22 dei Numeri, che riportano le invocazioni che Mosè pronunciava ogni volta che si muoveva l’Arca Santa, sono scritti tra due nun (lettera dell’alfabeto ebraico, suono n) rovesciate, che fungono da parentesi.

Nel Talmud (Shabbat 15b) viene discusso il motivo di questa stranezza, soprattutto per il fatto che narrativamente sembrerebbe avere senso leggere questi versetti all’inizio del libro dei Numeri anziché in mezzo a questa parashà. Siccome l’argomento del libro dei Numeri è il viaggio di Israele attraverso il deserto per raggiungere la Terra Promessa, sarebbe logico cominciare con l’invocazione della protezione di D-o per il viaggio. Invece è inserito nel capitolo della contestazione, quando cioè il popolo si lamenta perché è stanco di mangiare la manna, al punto da ricordare nostalgicamente i tempi dell’Egitto, dove, seppur in stato di schiavitù, il cibo era, a suo dire, vario ed abbondante. Inoltre questi versetti sono contornati da due nun rovesciate: qual è il loro significato?

Possiamo dare una prima risposta riflettendo sul contesto in cui questi versetti vengono inseriti, prima della contestazione del popolo. Nun in aramaico significa pesce, animale acquatico che deve sopravvivere lottando contro le correnti marine, per non lasciarsi sbattere dalle onde e morire. Questa attitudine riflette la qualità dell’ebreo che deve lottare contro i propri istinti e i propri desideri per vivere secondo la Torà, senza lasciarsi trascinare da un eccessivo edonismo che porterebbe l’uomo alla distruzione. Per governare la propria corporeità, per rinforzare la propria spiritualità è necessario vivere studiando la Torà e applicando le mitzvòt (precetti), simboleggiati dall’Arca Santa che veniva trasportata ovunque andasse il popolo; con essa c’era la protezione del Sign-re ad aiutare l’individuo nella propria lotta per un esistenza spirituale verso la pace e la serenità (la Terra Promessa). Le due nun ricordano le iniziali della dichiarazione na’asè venishmà’ (faremo e ascolteremo) che Israele pronunciò sotto il monte Sinai quando furono promulgati i Dieci Comandamenti.

Faremo e ascolteremo, dicono i Maestri, significa: prima applicheremo i precetti e poi ci chiederemo il loro significato. Si potrebbe pensare che prima sia più corretto studiare e capire la legge e poi applicare ciò che si è imparato. Ma l’accettazione dell’Ol Malkhut Shamayim il giogo del regno dei Cieli, cioè la sottomissione D-o, l’abbandono dell’idolatria e la ricerca della spiritualità, non ha e non può avere a che fare con la logica.

Se la fede fosse vincolata alla razionalità l’uomo sarebbe schiavo della propria mente e di quello che essa è in grado di concepire. Ol Malkhut Shamayim invece è anche una dichiarazione di libertà: sottostando alla Torà, alla legge del Sign-re, l’uomo diviene libero da influenze esterne, libero da condizionamenti psicologici e ambientali, libero perfino da se stesso, libero nella forma più alta che un uomo possa raggiungere.

Ebbene, i versetti sono racchiusi da due nun rovesciate per insegnare che il popolo si era dimenticato della dichiarazione di fede assoluta ed era divenuto schiavo dei propri sensi. La conseguenza di questo capovolgimento è la contestazione: il popolo si lascia condizionare dalla ragione, e questo lo porta inesorabilmente a desiderare la schiavitù, condizione di costrizione che conosce, piuttosto che la libertà, che in quel momento è ancora ignota. Questo causa inesorabilmente la perdita della fede assoluta nel Sign-re. Pur avendo visto i miracoli che D-o fece per farlo ascendere alle vette più elevate della trascendenza, scopo ultimo della vita stessa, il popolo di Israele, cioè ogni ebreo, ogni uomo, rinuncia inconsapevolmente a quello cui anela, ma che spesso ha paura di inseguire trascinato da emozioni che non sa governare, da desideri che prendono il sopravvento.

Unica via è quella di sollevare l’Arca e con essa guadagnarsi il sostegno del Sign-re nel viaggio dell’esistenza.