L’episodio è noto: solo, di notte, in fuga dal fratello Esaù, Giacobbe arriva in un certo luogo (“vaifgà bamakòm)”, il sole è tramontato ed egli si corica per dormire. Ha uno dei sogni più famosi della storia dell’umanità: vede una scala, con la base per terra e la cima in cielo; angeli Divini salgono e scendono, e lassù c’è D-o… Giacobbe si sveglia dal sogno e dice: “D-o si trova in questo e luogo e io non lo sapevo”. Prova timore e dice: “Com’è temibile questo luogo! Questa non è altro che la casa del Sign-re, è il cancello cielo” (Genesi 28:11-17). Sulla base di questo brano i Maestri hanno detto che Giacobbe istituì la preghiera della sera. E lo deducono dal termine “vaifgà”, che vuol dire “arrivò, vi capitò, incontrò”, ma può anche voler dire “pregò, si intrattenne, implorò” (vedi Geremia 7:16). La parola “bamakòm” (“nel luogo”), secondo i Saggi si riferisce a D-o (il “luogo” dell’universo), e l’espressione allora significherebbe che Giacobbe implorò D-o. Così Giacobbe completò il ciclo delle preghiere quotidiane: Abramo istituì la preghiera del mattino (Shachrìt), Isacco quella del pomeriggio (Minchà) e Giacobbe quella della sera (Arvìt). Ogni preghiera riflette anche il carattere del patriarca che l’ha istituita, e Giacobbe rappresenta la sera, la notte. È l’uomo della paura e della lotta con D-o, con gli altri uomini e con se stesso; è l’uomo che esperimenta il buio del mondo.

Le Tre Preghiere

In un passo del Talmùd, Rabbì Yehoshùa afferma che, mentre le preghiere di Shachrìt e Minchà sono obbligatorie, quella di Arvìt non lo è (secondo i commentatori è diventata comunque obbligatoria perché accettata universalmente attraverso le generazioni). Perché non dovrebbe essere vincolante come le altre due? Vi sono tre risposte. La prima considera che Arvìt non è obbligatorio perché le preghiere non hanno la loro origine halachica (normativa) nei Patriarchi ma nei sacrifici che venivano offerti nel Tempio di Gerusalemme. C’erano il sacrificio del mattino e quello del pomeriggio, ma non quello della sera. La seconda risposta afferma che una norma halachica stabilisce che un viandante, se intraprende un viaggio più lungo di tre giorni, è esente dalla preghiera. Nei tempi antichi, in cui viaggiare era pericoloso per il costante pericolo di predatori, era impossibile concentrarsi, e la preghiera richiede un periodo di tempo in cui ci si ferma e ci si concentra solo in essa. Giacobbe quindi era esente dalla preghiera e offrì le sue implorazioni come un atto volontario. La terza risposta si basa sulla tradizione secondo cui, mentre Giacobbe era in cammino, il sole tramontò improvvisamente, non nell’ora normale del tramonto; egli intendeva fermarsi per la preghiera di Minchà, ma fu colto di sorpresa dall’arrivo della sera. La preghiera della sera quindi non è mai diventata obbligatoria perché Giacobbe non intendeva recitare una preghiera serale.

C’è anche una spiegazione più profonda: le circostanze che i Maestri riconoscono come origine delle tre preghiere rappresentano tre diverse esperienze dei Patriarichi: Abramo iniziò la ricerca di D-o; intraprese un viaggio dello spirito verso una meta sconosciuta armato solo di fede; egli cercò D-o prima che D-o cercasse lui. La preghiera di Isacco è descritta in termini di “sichà”, ossia “conversazione, dialogo”, il che implica due interlocutori; la sua esperienza quindi è il dialogo tra D-o e l’umanità. La preghiera di Giacobbe è completamente diversa: non aveva l’intenzione di fermarsi a pregare, i suoi pensieri erano altrove (il fratello che minacciava di ucciderlo e il truffatore Labano da cui si stava recando). In questa sua mente turbata irruppe la visione di D-o, degli angeli e della scala che collega terra e cielo. Giacobbe non aveva fatto nulla per provocare o preparare questa visione, che arrivò totalmente inaspettata. Giacobbe “si imbatté” in D-o, potremmo dire; fu un incontro prodotto esclusivamente dal Sign-re, senza nessuna iniziativa dell’uomo, e questo è il motivo per cui la preghiera di Giacobbe non può essere la base di un obbligo. Giacobbe rappresenta l’incontro con D-o improvviso, la visione, il richiamo che non possiamo mai prevedere in anticipo, ma che ci trasforma la vita, che ci fa improvvisamente riconoscere che D-o c’è; questo tipo di esperienza non può essere oggetto di un obbligo; non è qualcosa che noi facciamo ma che “ci accade”. E questa esperienza avviene, letteralmente e in senso metaforico, di notte. Quando siamo soli, impauriti, vulnerabili, vicini alla disperazione. È allora che, quando meno ce l’aspettiamo, ci troviamo immersi nella luce di D-o; è allora che, con inequivocabile certezza, sappiamo di non essere soli, e di non esserlo mai stati. Giacobbe, in fuga, si sente sull’orlo dell’abisso – e si ritrova nelle braccia di D-o che lo stavano aspettando, aperte.

Di Rabbi Lord Jonathan Sacks, chabad.org