A un popolo che ha sofferto la schiavitù ed è stato oppresso per centinaia di anni, in procinto di assaporare finalmente una miracolosa libertà, Moshé, stranamente, non parla di libertà; non accenna alla futura destinazione né avverte dei pericoli e delle sfide lungo il cammino. Nella parashà di Bo, Mosè parla per tre volte di figli, educazione e di un futuro lontano. “Quando i tuoi figli ti chiederanno ‘Cosa significa questo rito?’ tu dirai ‘è il sacrificio di Pèsach al Sign-re, poiché Egli è passato oltre le case degli ebrei in Egitto quando colpì gli egizi ma risparmiò le nostre case’” (Esodo 12:26-27). “Spiegherai a tuo figlio in quel giorno: ‘È per ciò che il Sign-re ha fatto per me quando sono stato liberato dall’Egitto’” (Esodo 13:8). “Quando in futuro tuo figlio ti chiederà ‘cosa significa questo?’ tu gli dirai: ‘fu con mano potente che il Sign-re ci portò fuori dall’Egitto, la casa della schiavitù’” (Esodo 13:14). Moshè non parlò alla sua gente dell’oggi e nemmeno del domani; parlò di un futuro lontano e dei doveri dei genitori verso i figli. Accennò indirettamente alla necessità di incoraggiare i figli a fare domande, in maniera che il retaggio ebraico non sia trasmesso attraverso uno studio arido ma attraverso un dialogo attivo tra genitori e figli. Gli ebrei diventarono dunque il primo popolo a basare la propria sopravvivenza sull’educazione e sull’istruzione. La prima cosa che fecero gli ebrei quando arrivarono nella terra di Gòshen in Egitto fu quella di costruire scuole, e per questo motivo siamo gli unici tra i popoli antichi ad essere ancora in terra, forti, custodi della vocazione degli antenati e con il nostro retaggio intatto. Mosè sapeva che non si cambia il mondo con monumentali opere architettoniche, con imperi ed eserciti, e nemmeno con la forza e il potere; lo si può cambiare solo con l’educazione, insegnando i valori della giustizia, della rettitudine, della bontà e della solidarietà. Insegnando ai figli che la libertà può essere mantenuta solo con l’auto-controllo.
La Visione
Per questo dobbiamo costantemente ricordare ai figli che fummo schiavi in Egitto: chi dimentica l’amarezza della schiavitù alla fine perde il coraggio di lottare per la libertà. Bisogna anche sollecitare i giovani a chiedere e a parlare dei propri dubbi, e bisogna rispettarli se vogliamo che essi rispettino noi e gli altri. Moshè ha insegnato che la sfida non consiste nell’ottenere la libertà ma nel mantenerla nel cuore delle generazioni successive. È un tipo di educazione che comincia a casa, non nelle scuole. Nel Libro dei Proverbi è scritto: “Senza una visione (“chazòn”) il popolo perisce” (Proverbi 29:18). Questa “visione”, nella mente dei Profeti, è sempre stato il futuro a lungo termine. D-o disse al profeta Ezechiele che un profeta è un guardiano, uno che si arrampica per raggiungere un punto in alto da cui può scorgere il pericolo a distanza, prima di chiunque altro (Ezechiele 33:1-6). I Saggi notano: “Chi è saggio? Colui che vede le conseguenze lontane” (Talmùd, Tamìd 23a). Non bisogna mai cadere nella trappola di scegliere l’opzione più facile e veloce solo perché porta risulta immediati. Mosè sapeva guardare più lontano di chiunque altro e sapeva che la reale trasformazione del comportamento umano è il risultato del lavoro di molte generazioni. La nostra priorità dunque deve consistere nell’educare i figli ai nostri ideali, cosicché continuino quel che noi abbiamo cominciato. Se programmi per un anno, pianta il riso; se programmi per dieci anni, pianta un albero; se vuoi prosperità, educa un figlio.
Di Rabbi Jonathan Sacks, chabad.org
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