La scorsa settimana abbiamo letto riguardo alla decima piaga che ha finalmente rotto la presunzione del Faraone e degli egiziani dando via al grande Esodo dall’Egitto: dopo quattro generazioni di schiavitù il popolo ebraico si mette finalmente in marcia verso la Terra d’Israele.
La storia non finisce lì. Nella Parashà di Beshalàch incontriamo di nuovo gli egiziani alla rincorsa dei Figli d’Israele nel deserto.
Ciò é sorprendente. Gli Egiziani non erano già forse stati sconfitti in Egitto?
Il Faraone stesso cercò Moshè ed Aharòn per esortarli a prendere il loro popolo ed andarsene al più presto! Chi è, quindi, questo potente Faraone che si presenta nel deserto pronto ad attaccarci con i suoi soldati e carri da guerra?
I maestri della Kabbalà spiegano che esistono due fasi nella ricerca della libertà da parte dell’uomo. Due stadi che corrispondono alle parashiòt di Bò e Beshalàch e, in parallelo, ai primi e gli ultimi giorni di Pesach.
Da un lato l’esodo dall’Egitto che avviene la prima sera di Pesach e dall’altro la spaccatura del Mar Rosso che avviene il settimo giorno di questa festa.
È necessario percorrere queste due fasi per ottenere una vera libertà proprio perché esistono due tipi di schiavitù. Il primo genere è quello imposto da una forza esterna, dalle catene che
ci legano – sia nel significato che emerge dalla Torà, come in Egitto, sia in senso metaforico.
Il secondo invece è una schiavitù che scaturisce dalla persona stessa, come quelle catene dalle quali essa stessa si lascia imprigionare: collera, la presunzione, l’inerzia… catene che la legano a se stessa.
Sciolte le catene del Faraone ci ci sente naturalmente uomini liberi. Il Faraone continua invece a perseguitarci: quello che incontriamo nel deserto è effettivamente lo stesso che abbiamo preso con noi uscendo dall’Egitto.
Siamo stati liberati dall’Egitto che ci teneva fisicamente prigionieri ma rimane ancora il lavoro di trascendere “l’Egitto” che si trova dentro di noi, di uscire dalle nostre limitazioni interne.
Per far ciò dobbiamo “aprire il mare”, penetrare la profondità di chi e cosa siamo per poi rivelare la nostra identità autentica.
Come spiega Rav Yehudà Loew di Praga nel suo Netzach Yisrael, in questo si manifesta l’identità di un popolo che è libero anche quando è fisicamente incatenato.
Perché ormai la sua anima non può essere sottomessa e serve solo il Sign-re.
Basato sulle opere del Rebbe di Lubavitch
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