«Moshè condusse Israèl via dal Mar Rosso, ed essi andarono nel deserto di Shur; camminarono per tre giorni nel deserto e non trovarono acqua. Arrivarono a Marà, ma non poterono bere l’acqua di Marà poiché era amara; per questo il posto è chiamato ‘Marà’ (dalla radice di ‘amaro’ N.D.T.) ». (Esodo 15:22-23)

Questo passo della Torà ha dato vita a numerose interpretazioni. Secondo Rabbi Yehoshùa, l’acqua divenne amara e imbevibile solo dopo che gli israeliti arrivarono a Marà; prima era potabile. Ma perché D-o avrebbe messo alla prova il popolo, stanco e assetato, rendendo amara l’acqua? E perché la località viene chiamata proprio “Marà”, ad eternare il loro amareggiamento? Il posto avrebbe anche potuto chiamarsi “Dolce”, per ricordare il lieto fine dell’episodio, dopo che l’acqua diventò (o tornò) ad essere dolce e potabile!

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Il Magghid di Mezeritch fa un’osservazione linguistica. Letteralmente, le parole “perché ]le acque[ erano amare – ki marìm hem” possono essere anche tradotte “perché essi erano amari”, a significare che erano gli ebrei, e non l’acqua, ad essere amari, e solo come conseguenza della loro “asprezza” diventò amara anche l’acqua.

A livello psicologico, lo stato d’animo degli ebrei era tutt’altro che sereno e tranquillo, e percepivano tutto in maniera negativa. Erano provati dagli eventi più recenti: la traversata del Mar Rosso (miracolosa e al tempo stesso sconcertante), l’attesa del Dono della Torà che Moshè aveva preannunciato, la marcia nel deserto di Shur per tre giorni senza trovare acqua. Cominciavano ad essere fortemente insofferenti nei confronti di Mosè e del Sign-re; erano sotto forte stress e cercavano un pretesto per sfogare il loro nervosismo. Lo trovarono, protestando con Moshè per la mancanza di acqua, che prese il sapore del loro stato d’animo; avrebbe magari potuto non essere amara, se gli ebrei avessero cambiato umore.

Anche a livello spirituale, il rimedio risiede nell’atteggiamento mentale. Secondo il Midràsh, il termine “acqua” si riferisce alla Torà: quando il passo biblico dice che camminarono per tre giorni senza trovare acqua, vuol dire che per tre giorni gli ebrei trascurarono la Parola di D-o (Mechilta su Esodo 15:22). L’acqua non potabile rifletteva lo stato spirituale del popolo: avevano perso il significato dei loro passi, erano vuoti spiritualmente e assetati, e quindi – amari. L’effetto fu che l’acqua era aspra e non poté saziare la loro sete, poiché non si trattava di disidratazione fisica ma era la loro anima a chiedere nutrimento. Come potevano riempire il vuoto spirituale? Semplice. D-o mostrò a Moshè un pezzo di legno, Moshè lo gettò nell’acqua ed essa diventò dolce (Esodo 15:25). La Torà è chiamata anche “L’Albero della Vita” (Proverbi 3:18) e allora è come se il Sign-re avesse detto a Mosè: “Prendi una parte della Torà, anche un piccolo pezzo, un pensiero, e buttalo nell’acqua, sorseggialo, assaporalo, elaboralo e applicalo nella vita di tutti i giorni, e l’acqua diventerà dolce; la tua anima sarà ristorata e la pace interiore restaurata”.

Ma c’è anche un insegnamento più profondo. Secondo Rabbi Elièzer Hamodài, il pezzo di legno di cui parla la Torà è un ramo di ulivo, che è amaro. Questo ci insegnerebbe che quando ci sentiamo inspiegabilmente ansiosi e insoddisfatti, dovremmo prendere l’aspetto più aspro della nostra esistenza e trovarne il potere terapeutico. La sete spirituale di per sé, la profondità della sua bramosia e la sua forza di volontà fanno parte del processo dolcificante. Per questo la località dove avvenne l’episodio biblico si chiama “Marà”: per dirci di imparare a interiorizzare ed utilizzare la straordinaria forza dell’amarezza creata dal vuoto e berne un sorso, anche – e soprattutto – quando le acque della vita sono dolci.

Di Rav Mendel Kalmenson, per concessione di chabad.org