Amaro era il pane quotidiano degli schiavi ebrei nell’esilio egizio. Cominciò con lavori forzati e degenerò in soprusi di indicibile crudeltà. L’apice dell’orrore fu raggiunto col decreto del faraone di uccidere tutti i neonati maschi e con i bagni che egli faceva nel sangue di questi bambini. Il lavoro fisico era spossante ma i dolori psicologici non meno drammatici. Le cellule familiari erano disgregate: le mogli si erano separate dai mariti che dovevano rimanere nei campi di lavoro lontani dalle loro case. Il popolo era demoralizzato e depresso, spoglio di ogni veste di dignità e di amor proprio. Sotto il terrore della frusta dei capomastri, ogni speranza di un futuro migliore sembrava vana.

Una volontà di ferro.

Eppure, un gruppo di schiavi non si lasciò abbattere e conservò per ripicca le sue scintille di ottimismo. Incoraggiavano quotidianamente le loro famiglie con energie sovrumane e rimanevano fiduciosi nell’efficacia delle loro preghiere. Questi schiavi erano le donne ebree. «Per merito delle donne virtuose di quella generazione, i nostri avi furono liberati dall’Egitto». Dopo una giornata di lavoro massacrante, le donne si imbellettavano per i mariti. Al calar della notte, si intrufolavanonei campi degli uomini, portavano loro cibo caldo e fortificante. Facevano scaldare l’acqua e curavano le ferite dei mariti. Li curavano con le loro parole dolci e rassicuranti: « Non perdiamo la speranza. Non saremo schiavi di questi scellerati tutta la nostra vita. Hashèm ci ha promesso che avrà pietà di noi ed Egli ci libererà. » Molte donne concepirono durante quegli incontri, dando alla luce a figli che avrebbero in seguito garantito la perennità del popolo. Come poterono serbare tanta speranza in quei momenti difficili? Avevano un capo e una guida. Si chiamava Miriàm-Miriam. Il Talmùd commenta: « Israèl ebbe tre ottimi capi: Mosè, Aronne e Miriam. » Mentre i primi due dirigevano l’insieme del popolo, « Miriam era la guida delle donne ». Il suo metodo d’insegnamento consisteva nell’essere un esempio vivente. Da dove attingeva il suo coraggio e la sua visione della vita? Il suo nome ha due significati ed entrambi esprimono le peculiarità della sua personalità. Il primo proviene dalla radice « mar » ovvero amarezza. Ella nacque all’epoca in cui l’oppressione e le angherie giunsero al culmine: «Ed essi [gli Egizi] resero le loro vite amare (Vayemareru, dall’aggettivo mar) con lavori difficili» (Esodo 1, 14). L’altra origine del nome è «meri-rivolta». Nonostante la cupezza dell’epoca in cui nacque, ella si ribellò sin dalla tenera età contro la mentalità da schiavi che corrodeva il suo popolo. Sebbene condividesse il dolore dei fratelli, non si lasciò mai prendere dalla paura o dalla disperazione. Sebbene esposta alla crudeltà più spietata, non cedette mai alla corruzione morale o alla prostrazione. Con coraggio e ardore fu la guardiana vigilante della fiducia nella redenzione promessa.

Le due eroiche ostetriche.

Nei testi, Miriam ci viene presentata quando il nuovo faraone salì sul trono: « Si levò un nuovo re d’Egitto e si rivolse alle ostetriche degli ebrei, i cui nomi erano Shifrà e Puà. E disse : “quando farete partorire le donne degli ebrei, se sarà un maschio lo farete morire, se sarà una femmina, che ella viva ». Rashi spiega che erano i nomi professionali di Yochèved e Miriam ; la prima, madre di Miriam, si chiamava Shifrà perché era esperta nell’arte di “abbellire”, dal verbo shafàr, e di lavare i neonati. Myriam, nonostante la giovane età, eccelleva nell’arte di paà-mormorare ai neonati parole dolci e di calmarli quando piangevano. In base al midràsh, Miriam fu chiamata Puà in seguito ad un altro episodio: “Ella hofyà-svelò il suo viso con aplomb davanti al faraone dicendo: ‘guai a quest’uomo, quando D-o si vendicherà di lui’» e aveva solo cinque anni! Si ribellò contro lo status quo, contro l’apatia e la crudeltà. Ella e sua madre, naturalmente, ignorarono l’ordine del faraone. D-o ricompensò queste donne valorose regalando loro «delle case », delle stirpi. Da loro discesero, infatti, i capi del sacerdozio, i cohanìm, i leviti e anche i re d’Israele.

La nascita Moshè Rabbenu.

Quando nacque Moshè, la casa fu riempita di una luce divina che emanava dal neonato. Purtroppo, la gioia fu interrotta dalla consapevolezza che il bimbo sarebbe stato portato via per essere ucciso. Quando non poteva più nasconderlo, Yochevèd lo mise in una culla di vimini che appoggiò fra le canne del fiume. Yochèved era demoralizzata ma Miriam si ostinò a conservare il suo ottimismo. E fece da guardia alla culla, seguendola da dietro i cespugli, nel suo lento procedere sulle acque del fiume. Vide Batyà, figlia del faraone, immergersi nell’acqua per prendere il bagno. Scoprendo il bambino nel cestino, Batyà decise di salvarlo. Miriam, con fare sicuro e disinvolto, le si avvicinò per suggerirle di assumere una balia ebrea. E così portò il bambino alla madre per farlo allattare. Moshè crebbe nei primi tempi nella sua famiglia, usufruendo, nel corso della tenera infanzia, di un ambiente materiale e spirituale adeguato fino a che fu svezzato. Dopo aver ricevuto amore e educazione dai genitori, fu condotto a palazzo per seguire il suo destino di capo e di liberatore. Tutto ciò grazie alla ferrea volontà e alla tenacia di Miriam, alla sua incrollabile fede e alla sua perenne rivolta contro le avversità.

Il Mar Rosso

Decenni passarono e il popolo ebraico si ritrovò sulle rive del Mar Rosso. Moshè era tornato da Midyàn con il ruolo di redentore, nominato da D-o. Il popolo fu fatto uscire trionfalmente con decoro e dignità. Poi fu inseguito dal faraone e dal suo esercito e Hashèm fece aprire il mare a Moshè Rabbènu salvando il popolo ebraico. Finalmente, dopo il lungo esilio, gli ebrei ebbero la meglio sui nemici e beneficiarono di una liberazione miracolosa e assoluta. La schiavitù era giunta al termine e la salvezza finalmente concreta e tangibile. Sulle sponde del Mar Rosso, il popolo di Israele, sotto la direzione del loro capo Moshè Rabbènu, intonò il canto Shiràt Hayàm, un cantico che esprime la gratitudine e la grazia che resero al Sig-re. Ma quando ebbero concluso l’inno, sopraggiunse qualcosa di inspiegabile. «E Miriam, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano i tamburelli e tutte le donne la seguirono con tamburelli e balli. E Miriam rispose loro: ‘cantate l’Onnipotente’» (Esodo 15, 20-21). Gli uomini cantarono con le loro voci ma il canto delle donne era composto non solo da voci, ma anche da tamburelli e da danze. I cuori delle donne erano più appassionati, intrisi di una felicità più intensa e i loro canti erano più completi. Rashi spiega “che le donne di virtù di questa generazione credevano profondamente che Hashèm avrebbe elargito loro i miracoli e avevano portato con sé dei tamburelli». Nonostante le lacrime, il dolore nel vedere i bambini ammazzati, le sofferenze dei mariti, la fretta nell’uscire dall’Egitto, ebbero la forza di preparare qualcosa che sembrava ai loro occhi molto più importante dell’azzimo non lievitato e delle preoccupazioni materiali: i tamburelli. Dagli abissi delle loro miserie non persero i loro ideali e risvegliarono in sé il meri, l’animo ribelle di Miriam, la sua opposizione alle angosce, all’apatia e allo scoraggiamento. La loro fede era più salda di tutto il resto, esse sapevano che sarebbero state salvate e per questo dovevano preparare gli strumenti coi quali avrebbero cantato in modo appropriato le lodi al Sig-re. Convinte senza ombra di dubbio che Hashèm si sarebbe ricordato di loro. Questa fu la forza di Miriam, una forza femminile che aumentò con l’amarezza e la disperazione. Questa fu la forza delle donne che uscirono dall’Egitto con tamburelli, balli e canti di gioia e di fede. E questa è la forza di tutte le donne.

Tratto da Likutè Sichòt, di Miriam Bentolila