Nella società moderna in cui viviamo è difficile trovare soddisfazioni spirituali e, dunque, siamo sempre più numerosi a ricercare la nostra “essenza”. La Parashà di questa settimana risponde al significato di questo concetto. Infatti la Torà interviene nella fase in cui gli ebrei escono dall'Egitto: “E Moshè prese le ossa di Yossef con sé”. Yossef HaTzaddik (il Giusto) prima di morire, ingiunse ai suoi discendenti di prendere le sue spoglie, quando questi sarebbero usciti dall'Egitto, al fine di seppellirle in Terra Santa. Questo versetto ricorda l’importanza della terra d’Israele nella coscienza ebraica.

Ma perchè ricorrere alla parola “ossa”, usata da Yossef e ripetuta dalla Torà? Un vocabolo più rispettoso sarebbe stao più consono ai resti di una persona defunta. In ebraico la parola “ossa - atzamot” è etimologicamente originaria dell’accezzione “essenza - atzmùt”. Le ossa di Yossef erano la sua fisicità ma Moshé, trasportandole fino in Israele, ne prese anche l’essenza, cioè la sua naturale inclinazione ad amare il prossimo. Quando nacque, Rachèl gli diede questo nome che significa “aggiunta”. Ella disse infatti: “Che D-o mi aggiunga un altro figlio”. Il senso letterale rappresentava il profondo desiderio della madre di dare alla luce un altro figlio, ma la Chassidut spiega che il nome si riferiva alla qualità morale del figliolo: aiutare le persone lontane a riunirsi, ad aggregarsi, ad “aggiungersi” al popolo ebraico.

Moshé e i Bené Israel presero l'essenza di Yossef: l’aspirazione al bene e alla Redenzione, in poche parole, all’essenza dell’ebraismo e della vita.

Più avanti, nella Parashà, si parla della Manna, cibo miracoloso che il popolo ebraico ricevette durante la lunga peregrinazione nel deserto. Tra la manna e lo Shabbat c’è un legame molto stretto: quando cadde dal cielo il venerdì della prima settimana del soggiorno nel Sinai, ogni famiglia scoprì che ne era stata donata una doppia porzione e Moshé spiegò a tutti che era destinata allo Shabbat, cosicchè l’indomani nessun capofamiglia sarebbe stato costretto ad uscire per raccoglierla e dissacrare il settimo giorno. In ricordo della doppia porzione, si mettono sul tavolo di Shabbat due challòt e la tovaglietta che le copre rappresenta lo strato di rugiada che rivestiva la manna ogni mattina.

Questa sostanza straordinaria proveniva da una sfera spirituale molto elevata e lo Shabbat, il regno designato come “Il Mondo delle Delizie”, ci è stato rivelato in quel periodo. La specificità di questo giorno è la sua sacralità vissuta e assaggiata come una “delizia”, sia fisica che spirituale, dalle famiglie ebraiche, da semplici creature terrestre.

Il paradosso della preghiera

Tuttavia, una parte dello Shabbat è spesso presente anche nella vita di tutti i giorni, nel momento della tefillà, durante il quale il paradosso dello Shabbat – il cibo spirituale assaggiato come cibo materiale – penetra nella nostra vita. A cosa si aspira con la preghiera? Ad avvicinarsi a D-o. La tefillà, in effetti, è paragonata ad una scala quale strumento per congiungerci al Cretatore e ci permette di dimenticare momentaneamente le nostre mere preoccupazioni quotidiane.

Eppure sussiste un’incongruenza, in quanto, pregando, imploriamo Hashem di assisterci nel sormontare i nostri problemi materiali. Come possono coesistere in una stessa azione aspetti talmente contradditori? L’obiettivo prefissato dall’ebraismo è quello di raggiungere i livelli più spirituali e di unirli alle nostre esistenze fisiche, tramite le mitzvot e lo studio della Torà. Come nel sogno di Yaakov, il nostro movimento verso D-o è paragonato a quello degli angeli che salivano su per la scala. In seguito, subentra il movimento corrispondente, la discesa degli angeli. La discesa è la risposta di Hashem che ci benedice regalandoci salute, felicità, prosperità materiale ed infine, la Redenzione.