La forma ridotta della lettera alef, al termine della parola vayikrà, ha suscitato numerosi commenti. Troppo modesto per riconoscere la grande stima manifestata da D-o nei suoi confronti, Moshé voleva scrivere, nella Torà, la parola senza la alef finale, in modo che la chiamata a lui rivolta dal Signore suonasse analoga a quella ricevuta da Bil’am, rendendo esplicito, così, il desiderio di attribuirle un carattere del tutto fortuito (Rashi). D-o stesso, però, gli ingiunse di scrivere vayiqrà, e Moshé obbedì, ma ridusse le dimensioni della alef.
Questa piccola alef rappresenta Moshé stesso: piccolo, umile, ma chiamato e consacrato da D-o alla grandezza.
È necessario, però, distinguere tra il senso dell’umiltà, che è positivo e costruttivo, e la scarsa considerazione di se stessi, che è, al contrario, distruttiva per l’individuo. Sotto molti aspetti l’uomo è piccolo e deve essere consapevole della sua statura infinitesimamente limitata, ma anche così egli può elevarsi, se D-o vuole, tramite lo studio della Torà e tramite i meriti che un comportamento retto dalle mitzvòt gli può arrecare.
Perché proprio la alef, tra tutte le lettere, fu scelta per rappresentare questo concetto? Una spiegazione, forse, si può trovare nel fatto che, come la alef è la prima lettera dell’alfabeto, così questo concetto deve essere instillato nell’animo umano al principio della vita in questo mondo e deve sempre mantenere un’importanza primaria.
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