Perché se una persona voleva espiare una colpa o portare un’offerta a D-o come ringraziamento doveva per forza sacrificare un animale innocente? Perché, ad esempio, non sacrificare se stessa? I Maestri della Chassidùt rispondono che sì, la persona sacrificava se stessa! La Torà puntualizza il concetto nel verso che introduce le norme sui sacrifici: “Un uomo in mezzo a voi che avvicinerà un’offerta a D-o, dagli animali, dal bestiame bovino o dal gregge, avvicinerete la vostra offerta” (Levitico 1:2). Rabbi Schneur Zalman di Liadi nota che il testo non dice “un uomo che porterà un’offerta” ma “un uomo che avvicinerà un’offerta”. Il Talmùd afferma che l’uomo è un mondo in miniatura: ha in sé oceani e continenti, foreste e deserti, uomini e animali. La psiche umana contiene un mare subconscio, un’anima umana – detta anche “anima divina” – e un’anima animale. L’anima divina racchiude tutto quello che aspira verso l’alto e che trascende l’uomo; anela alla sua sorgente Divina guidata da un amore fervente per D-o. Le sue modalità di espressione sono il pensiero, la parola e l’azione di Torà, che sono i mezzi attraverso i quali raggiunge vicinanza e attaccamento al suo Creatore. L’anima animale è l’io che l’uomo condivide con le altre creature: si guida da sola per soddisfare necessità e desideri fisici e si esprime attraverso gli sforzi nella vita materiale. L’atto di offrire un animale a D-o dal proprio recinto è un gesto privo di significato se non si offre simultaneamente anche l’animale che è in noi. “Tanto grano è prodotto con la forza del bue” (Proverbi 14:4): il versetto, secondo la Chassidùt, si riferisce all’animale che è nel nostro cuore. Un bue scatenato può uccidere e distruggere, ma quando viene domato, contenuto e imbrigliato all’aratro, diventa produttivo e permette di ottenere un raccolto superiore a quello possibile con la sola forza dell’uomo. Allo stesso modo, l’anima animale non si trova nell’uomo per essere soppressa o sradicata. Il fervore con cui essa persegue le proprie passioni è molto più intenso di quello dell’anima divina e, lasciato libero di agire, si tradurrà in un comportamento distruttivo; però, il giusto approccio e un opportuno ammaestramento possono eliminare le conseguenze negative delle sue azioni e dirigerle verso il bene e scopi elevati. Cosa bisognava fare con l’animale portato in offerta?
Le Due Offerte
Il primo tipo di sacrificio che la Torà descrive è la “olà”, l’offerta che (letteralmente dall’ebraico) “ascende”. È un’offerta assoluta poiché, a differenza di altri sacrifici, dopo che l’animale veniva sottoposto alla macellazione rituale nel cortile del Tempio e il suo sangue versato sull’altare, veniva sollevato sull’altare e completamento bruciato a D-o. L’atto fisico di bruciare corrisponde al processo di sublimazione descritto sopra. Quando una sostanza brucia, la sua forma esteriore materiale viene eliminata, rilasciando tutta l’energia che vi era racchiusa, e questo è il significato un po’ più profondo del sacrificio: l’energia dell’animale viene privata della sua forma materiale e offerta sull’altare del servizio verso D-o. La Torà descrive poi due categorie principali di offerte: il “korbàn chattàt” (sacrificio del peccato) e il “korbàn shelamìm” (sacrificio di pacificazione). Anche in questi due casi il sangue veniva versato sull’altare ma solo alcune parti dell’offerta venivano bruciate e fatte ascendere attraverso il fuoco. La Torà specifica alcune parti di grasso (chiamate “chalavìm”) che dovevano essere rimosse e bruciate, ma la carne del sacrificio veniva mangiata in santità, seguendo norme e condizioni precise (la carne del chattàt veniva consumata dai sacerdoti e quella del shelamìm dall’offerente, dando alcune porzioni ai sacerdoti). Ci sono alcuni aspetti della vita materiale che sono totalmente convertiti alla santità: il denaro dato in beneficienza, la pelle con cui si fabbricano i tefillìn e così via. C’è anche il denaro speso per il sostentamento della propria famiglia e la pelle delle scarpe: anche in questo caso si tratta di sacrifici a D-o, mangiati in santità se il denaro è guadagnato onestamente e il cibo di cui ci si nutre è kashèr. Il sangue dell’anima animale (il suo fervore e la sua passione per la materialità) viene versato sull’altare; il suo grasso (l’eccessiva indulgenza nei piaceri) deve essere bruciato; la sua carne, ossia la sostanza dell’animale, può essere santificata anche se non viene totalmente convertita in un atto santo. Fintantoché sono mangiati in condizioni di santità, i nostri sforzi materiali possono essere mezzi di avvicinamento a D-o. La parola in ebraico “korbàn”, che indica il sacrificio, letteralmente significa proprio “avvicinamento”.
Basato sugli insegnamenti del Rebbe di Lubàvitch, chabad.org
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