Dopo anni trascorsi presso lo zio Lavàn, dopo aver sposato quattro mogli e aver visto nascere la sua discendenza, Yaakòv si accinge a tornare nella Terra dei suoi padri. Sono passati anni da quando ha ricevuto la benedizione del padre che a priori sarebbe spettata al fratello Esàv, eppure Giacobbe ha ancora paura delle intenzioni del fratello, chiedendosi se Esaù voglia vendicarsi. Decide allora di inviare dei messaggeri al fratello, ed essi lo informano che effettivamente Esàv gli sta venendo incontro con un vero e proprio esercito. Yaakòv mette a punto una strategia in tre fasi: preghiera a D-o, piano di battaglia e doni per ammansire Esaù. Prima del fatidico incontro, la Torà ci dice che a un certo punto del cammino Giacobbe rimane da solo, e viene avvicinato da un essere enigmatico e misterioso che lotta con lui. Yaakòv ha la meglio e l’uomo lo benedice, dicendogli che da questo momento in poi il nome di Giacobbe sarebbe stato Israèl. Alcuni midrashìm spiegano questo episodio e i suoi retroscena.

Le Brocche

Il Talmùd riporta una spiegazione di Rabbì Elazàr, secondo cui Giacobbe si era accorto di aver dimenticato delle piccole brocche dall’altra parte del fiume Yabbòk che aveva appena attraversato, tornò indietro a recuperarle e si imbatté nell’uomo. Perché Yaakòv si preoccupò di tornare a prendere le brocche che non avevano gran valore? Rabbì Elazàr spiega che i giusti hanno cura dei propri beni (Chullìn 91a). Dal punto di vista della Chassidùt, ogni oggetto contiene una scintilla di divinità che aspetta di essere elevata. Lo tzaddìk sa riconoscere questa scintilla anche negli oggetti minuscoli, e così è disposto a rischiare la vita pur di custodirla e rivelarla. Il Maharshal offre un’altra spiegazione: le brocche contenevano l’olio che Giacobbe aveva messo da parte per ungere il monumento su cui si era sdraiato anni prima nel suo viaggio verso Charàn (Genesi 28:18 e 35:14). Considerando l’olio come sacro, volle tornare a prenderlo. È da notare che queste brocche possono essere legate al miracolo di Chanukkà: secondo alcuni commentatori D-o disse a Yaakòv, “Hai rischiato la vita per una piccola brocca di olio per Me, ricompenserò i tuoi discendenti producendo un miracolo con una piccola brocca di olio”.

La Lotta

I Maestri spiegano anche chi era quest’uomo misterioso. Nel Talmùd e nel Midràsh ricorre il principio secondo cui ogni popolo ha il proprio angelo, che perora gli interessi della sua gente davanti a D-o. Quest’uomo era dunque l’angelo protettore di Esaù, che tentò, invano, di far fallire la missione di Giacobbe. Iniziò così la lotta dei titani, che andò avanti per diverse ore. Secondo Rashì e il Talmùd, a un certo punto i due si afferrarono, gettarono sabbia in alto che arrivò al Trono Divino. L’angelo capì che non poteva sopraffare Yaakòv e colpì il suo femore. Al sorgere dell’alba, l’angelo doveva tornare dai suoi colleghi per cantare al Creatore, ma Giacobbe non voleva lasciarlo andare perché a questo punto aveva capito di aver lottato con un essere celeste, e lo lasciò solo in cambio di una benedizione, per sancire il suo diritto alla benedizione del padre che in origine spettava al fratello.

L’Insegnamento

Tutti i commentatori concordano che questa lotta è stata il primo atto di una battaglia che continua fino ad oggi tra il popolo ebraico e i suoi nemici.In effetti, in diversi momenti i nemici sono forse riusciti a colpire il nostro femore, ma siamo rimasti in piedi. Questa lotta finirà al sorgere dell’alba, con la Redenzione finale. La lotta con l’angelo però simboleggia anche la lotta con il nostro lato individuale più buio: l’angelo riesce a colpire Giacobbe nel punto che corrisponde alla sede dell’inclinazione al male. Lo Zòhar ci insegna che siamo in grado di vincere i desideri negativi, se lo vogliamo, ma c’è un punto in cui il male è più potente dell’uomo, in cui tutti i freni e remore vengono lasciati liberi di agire: questo punto è il nervo sciatico, che a noi ebrei è vietato mangiare. In ebraico si chiama “ghid hanashè”, che significa letteralmente “dimenticare”, e simboleggia l’oblio del nostro retaggio.

Di Mendy Kaminker, chabad.org