Dopo che il Sign-re ebbe decretato che la generazione dell’esodo sarebbe perita nel deserto per aver accettato l’opinione delle spie e per non aver avuto fede nella sua parola, gli ebrei si resero conto di ciò che avevano commesso e:
Essi la mattina presto salirono sulla cima del monte e dissero: «Ecco noi saliremo nel luogo che il Sign-re aveva detto, perché abbiamo peccato» (Numeri 14, 40).
Il tentativo degli ebrei di entrare nella terra di Canaan dopo che D-o ebbe emesso il suo decreto di condanna nei loro confronti, finì con una totale sconfitta. Ma, dal momento che il popolo ammise il proprio peccato dicendo: poiché abbiamo peccato…, e fu pronto a entrare nella terra, perché D-o non lo perdonò? Forse che non si trattava di un atto di teshuvà, di pentimento, adeguato?
Il Ba’al Shem Tov trova una risposta leggendo le parole del versetto in un modo differente, cosa che implica, è ovvio, un significato altrettanto differente:
«Siamo pronti a salire sul monte perché D-o ha detto che abbiamo peccato».
In altre parole, nonostante la severa reprimenda rivolta loro dal Sign-re, gli ebrei non concepirono di aver agito male. Tutti loro, semplicemente, furono immediatamente pronti ad ascoltare e ad accettare le parole del Sign-re quando disse: «Voi avete sbagliato e avete commesso una colpa».
Nonostante le parole di Israel, poiché abbiamo peccato…, possano essere considerate un’ammissione e un riconoscimento fatto da parte di ciascun componente del popolo del proprio peccato, il Ba’al Shem Tov dice che essi erano ben lontani dal provane la giusta contrizione.
Secondo l’interpretazione del Maestro, le loro parole erano di sfida, piuttosto che di rimorso.
Agire in modo non consono al Volere Divino è male, ma rifiutare di ammettere il proprio errore è molto peggio. Il profeta Geremia dice con estrema chiarezza al popolo ebraico che, nonostante, e al di là, delle colpe seppure gravi che esso commette, la ragione per la quale D-o giudica e punisce duramente è perché voi dite “Io non ho peccato” (Geremia 2, 35).
Il riconoscere un proprio errore o una colpa può giungere anche molto dopo il fatto, proprio all’ultimo momento, quando si raggiunge la piena e precisa consapevolezza di ciò che si è fatto. Ma una volta che si instaura un meccanismo di rifiuto confronti di tale ammissione, ecco che una tale attitudine prende piede rinforzandosi mano a mano fino a rendere la persona ostinatamente convinta della propria rettitudine. Un tale atteggiamento negativo può giungere a dominare un individuo al punto che solo l’intervento di un’autorità – e di una Volontà superiore – sarà in grado scuoterlo, inducendolo a porvi rimedio.
Questo è vero sia per quanto riguarda la condotta di una nazione intera, sia di un singolo individuo.
Il Talmud dice che le esortazioni alla teshuvà, rivolte al popolo ebraico da parte di 48 profeti e di 7 profetesse, non avrebbero potuto in alcun modo avere l’esito ottenuto dall’episodio di Haman che ebbe mano libera per fare agli ebrei tutto ciò che desiderava (Meghillà 14a). In quell’occasione, infatti, la generazione di Ester e di Mordechai fece un atto di pentimento completo e sincero, tornando ad adempiere ai precetti, solo per il timore dell’imminente, e certo, annientamento da parte del malvagio ministro del re, ma fu salvata.
Ora, né un individuo, né una nazione può – o deve – attendere che si verifichi una tale situazione di crisi al fine di prendere coscienza della necessità di compiere il Volere di D-o.
La pronta ammissione della propria colpa rimane comunque di sicuro la via più semplice e immediata al fine di ottenere un perdono completo da parte del Sign-re.
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