Jonathan Roth era un uomo disperato. Quanto lontano potesse risalire la sua memoria, per lui le cose non erano mai andate per il verso giusto. Tanto per cominciare, era nato nella povertà e poco dopo il suo dodicesimo compleanno, suo padre morì di malattia. In seguito, al fine di aiutare il sostentamento della famiglia si era associato, per ragioni di lavoro, a tipi poco raccomandabili. E fu lì che si prese la più grande batosta della sua vita. Fu arrestato in pieno traffico di droga e condannato a dieci anni di reclusione. La vita dietro alle sbarre era difficile, è il meno che si possa dire. Non sopportava dover rinunciare a fare i gesti più semplici ed elementari della vita di tutti i giorni. Ma il peggio era la prostrazione che sentiva per i suoi sensi di colpa e per il livore che serbava nei confronti di se stesso per aver commesso quei gravi errori. Non passava giorno senza che ripercorresse le sequenze dei suoi misfatti. Era prossimo alla disperazione quando, contro ogni aspettativa, la sua vita prese una nuova svolta.

Un week-end, un’associazione ebraica che portava aiuto ai detenuti organizzò un seminario di studi di Torà nel quartiere Crown Heights per gli ebrei incarcerati nelle prigioni federali. Il programma includeva la partecipazione, di sabato pomeriggio, ad un Farbrenghen (riunione chassidica) condotto dal Rebbe di Lubàvitch. Qualcosa nell’atteggiamento del Rebbe lo interpellò. Ascoltava con attenzione il suo discorso che verteva sulla parashà della Torà letta quella settimana. «C’è qualcosa di ingiusto nella punizione inflitta ai partigiani degli esploratori inviati da Moshè Rabbenu in avanscoperta della Terra di Canaan, affermava il Rebbe. Certo, peccarono quando espressero il loro disinteresse per la salita a Canaan ed erano stati di conseguenza condannati a morire nel deserto senza mai vedere la Terra Santa. Ma perché non furono condotti entro i confini del deserto e ivi installati per trascorrervi il resto della loro vita? Perché, invece, dovettero errare durante quarant’anni e condurre un’esistenza fatta di stenti, di angherie, di instabilità e di fragilità? Il Rebbe proseguiva il suo discorso citando il Midràsh che insegna che laddove gli israeliti passavano, il terreno si tramutava in un prato. Un verde rigoglioso sostituiva la terra desolata e arida. Ad ogni sosta, creavano delle oasi di civiltà in mezzo alla terra selvaggia e inabitabile. Così il loro viaggio fu un’impresa di trasformazione positiva e non una serie di spostamenti arbitrari e inutili. Da lì il loro lungo peregrinare non costituì solamente una penitenza ma anche un privilegio».

Queste ultime parole scossero Jonathan.

«In che cosa questo episodio di può essere di attualità? Ebbene, anche oggi una persona può ritrovarsi intralciata in un deserto virtuale, geograficamente o mentalmente, in un luogo inospitale, dove si sente incapace di essere onesta e di esprimersi liberamente. Perché ella vi si trova? Per uno scherzo del fato o per errori insensati? Si prenda ad esempio il caso di un detenuto. Perché è in prigione? Non solo perché ha commesso un crimine. Dopotutto molti uomini pieni di colpe circolano liberamente. Non sono stati arrestati però, avanzerete voi! Ma allora perché proprio quella persona giace in una cella? Non solo perché è uno shlemazel, (uno iellato, in yiddish)! Vedete, non c’è luogo sulla faccia della terra lontano da Hashèm quanto le carceri in quanto lì una persona viene privata da ciò che la rende umana: la sua libertà. Questa è la ragione per la quale nell’ebraismo non esiste la pena di detenzione. Tuttavia, certe anime, dotate di forze straordinarie, sono state scelte dalla Provvidenza per penetrare in territori selvaggi dal punto di vista spirituale quali l’incarcerazione e trasformarli con un apporto di senso e di creatività spirituale. Pochi sono in grado di raggiungere la libertà interiore necessaria alla sopravvivenza e, per giunta, prosperare nell’ambiente carcerario. Sono le grandi anime che si ritrovano a scontare queste pene. Ovvio che hanno commesso dei crimini e perciò devono esserne ritenuti responsabili. Tuttavia, come per gli esploratori biblici, le loro colpe sono solo la causa apparente della loro situazione. D’altro canto possiamo in tutta legittimità interrogarci sul fatto che determinate persone, e non altre, sono nate in circostanze difficili o con tendenze immorali che le conducono in cammini distruttivi. Ma l’idea, paradossalmente, è che le pulsioni immorali fanno scaturire forze spirituali eccezionali. In base al Talmùd: “Più una persona è elevata, più forte è la cattiva inclinazione”. Un altro insegnamento talmudico afferma che “Hashèm non dà alle sue creature degli ostacoli che non possono sormontare”. Si riscontra peraltro che le persone incarcerate non appartengono necessariamente alla parte peggiore della società bensì all’élite ed esse sono dotate del potenziale per esserne gli esponenti più costruttivi»

Inutile precisare che la vita di Jonathan da quel giorno fu completamente diversa. Per la prima volta della sua vita, anziché considerarsi una vittima, cominciò a ritenersi una persona investita di una missione unica, condivisa da poca altra gente. Arrivò persino a considerare come fonte di benedizione una sorte comunemente considerata come una maledizione.

Quale morale per noi?

Nella visione del mondo non intuitiva dell’ebrasimo, le crisi morali e religiose non sono segno di debolezza ma di forza. E il proscenio della vita e della storia è un’opera scritta dal Sig-re in concomitanza con

l’uomo, data la precisione assoluta della Provvidenza e della follia degli errori umani.

Siamo tutti in viaggio attraverso i nostri deserti personali, ognuno di noi attrezzato di materiale su misura - le circostanze, le pulsioni e le doti - che ci permettono di trasformare la sabbia in fiori, di installare la vita laddove regnava la morte e di apportare significato a ciò che di primo acchito sembra aleatorio e triviale.