Per capire la grandezza di Avrahàm dobbiamo prima analizzare gli episodi che la Torà ci narra prima dell’entrata in scena del patriarca. La storia dell’umanità, ai suoi albori, è caratterizzata da una serie di fallimenti: Adamo ed Eva mangiano il frutto proibito, Caino uccide Abele, la generazione del Diluvio è corrotta ecc. Una chiave di lettura che molti propongono è che queste generazioni erano caratterizzate da una mancanza di responsabilità. Adamo ed Eva mancavano di responsabilità personale: “non sono stato io, è stata la donna”, “non sono stata io, è stato il serpente”. Negano di essere, di fatto, gli autori del misfatto, a prescindere da eventuali responsabilità “morali”, e mostrano di non capire la libertà e il senso di responsabilità che essa comporta. Caino non si tira indietro di fronte alla sua responsabilità, non nega di aver commesso il crimine ma nega la responsabilità morale: “Forse sono il custode di mio fratello?”. Noè non riesce ad assumersi la responsabilità collettiva; è un uomo di virtù in mezzo a gente disonesta, ma fallisce nell’avere un impatto sui suoi contemporanei (in base a una prima lettura del testo nemmeno ci prova) e riesce a salvare solo la sua famiglia.

L’Iniziativa

Queste riflessioni ci aiutano a capire Avrahàm. Anzitutto si assume la responsabilità personale: quando scoppia un litigio fra i suoi pastori e quelli del nipote Lot, Abramo capisce che è la conseguenza del fatto di avere troppe pecore che pascolano insieme, e come soluzione propone a Lot di separarsi, lasciando a lui la prima scelta su dove dirigersi (Genesi 13:8-9). La decisione di Avrahàm non passa da nessuna valutazione preliminare su chi sia il colpevole: vede un problema e agisce. Nel capitolo successivo la Torà ci informa di una guerra locale, nel corso della quale Lot viene fatto prigioniero. Senza perdere tempo Abramo raduna uomini di guerra, insegue gli invasori e libera Lot e gli altri prigionieri, che riporta a casa sani e salvi rifiutando un compenso e il bottino che gli viene offerto. Questo episodio è piuttosto anomalo e si allontana dall’immagine che avevamo avuto fin qui dell’Avrahàm pastore nomade. A ben vedere, si tratta del corrispondente contrario di Caino: Abramo afferma, nelle parole e nei fatti, di essere sì il custode di suo nipote, assumendosi anche responsabilità morale. Lot aveva scelto di risiedere in Sedòm a suo rischio e pericolo ma suo zio non reagisce dicendo “la responsabilità è sua e della sua scelta”.

La Grande Sfida

Nella parashà di questa settimana assistiamo al grandioso momento in cui un essere umano sfida da solo l’Onnipotente. D-o annuncia che sta per giudicare Sodoma; Abramo si preoccupa che il giudizio possa portare alla distruzione della città, e si lancia in un’arringa accorata in difesa di questa gente: “Distruggeresti il giusto insieme al malvagio? E se ci sono cinquanta giusti nella città? La distruggeresti o non la risparmieresti in nome di queste cinquanta persone rette? Lungi da Te dal fare questa cosa – uccidere il giusto insieme al malvagio, trattandoli allo stesso modo! Non farebbe invece il Giudice della terra giustizia?” (Genesi 18:23-26). Il patriarca argomenta con D-o a pieno diritto: nel passo immediatamente precedente infatti, D-o dice “Dovrei forse nascondere ad Avrahàm quello che faccio, adesso che Avrahàm diventerà sicuramente un popolo grande e potente, e le altre genti della terra saranno benedette attraverso lui?” (Genesi 18:18). Perché mai D-o doveva dire queste parole e coinvolgere Abramo nei Suoi piani? Il Sign-re aveva detto a Noè: “Sto per mettere fine a tutte le genti, poiché la terra è colma di violenza a causa loro. Distruggerò loro e tutta la terra”. Noè si limitò a fare ciò che gli aveva comandato D-o, accettando il verdetto senza appello. Avrahàm aveva capito anche il terzo principio: la responsabilità collettiva. Gli abitanti di Sodoma erano per lui dei perfetti estranei, ma egli capì l’idea della solidarietà. Questo è il motivo per cui D-o Stesso coinvolse Abramo: era destinato a diventare l’esempio e l’iniziatore di una nuova fede, che non si sarebbe limitata a difendere lo status quo dell’uomo ma che l’avrebbe messo alla prova. Abramo doveva avere il coraggio di sfidare D-o poiché i suoi discendenti avrebbero dovuto sfidare i potenti della terra, come fecero Moshè e i Profeti. Gli ebrei non accettano il mondo così com’è ma lo affrontano e lo sollecitano, in nome del mondo che dovrebbe essere.

Di Rabbi Jonathan Sacks